Nei giorni successivi all’attentato di Parigi sono state fornite dell’Islam le rappresentazioni più grottesche e disparate. Si tratta, nella maggioranza dei casi, di ricostruzioni del tutto miopi, spesso unite dalla tesi per cui il mondo politico mediorientale, avendo mancato l’incontro con la modernità laica, cioè con la secolarizzazione della propria forma-Stato, sarebbe di fatto ancora del tutto irretito in un paradigma teocratico pre-moderno, caratterizzabile vuoi come intollerante, vuoi come feroce, repressivo o violento – poiché estraneo ai principi della democrazia occidentale. Ora, il fatto che una parte − certamente non irrilevante e comunque non sottovalutabile – del mondo musulmano, si sia trasformata in tutto questo, non significa affatto che le cose, anche nel recente passato, siano sempre state così. Una rapida analisi storica conduce infatti a valutazioni differenti.

Consideriamo, brevemente, prima il caso siriano ed iracheno; poi l’egiziano, il libico, ed infine quello iraniano.

Tanto la Siria di Hafiz al-Assad – dal 1970 in poi – quanto l’Iraq di Saddam Hussein – dal ’79 al 2003 – sono riconducibili all’ideologia del Partito Ba‘th, ossia alle teorie socialiste panarabe sviluppate originariamente da Michel ’Aflaq, siriano di nascita ma di formazione francese (completò gli studi alla Sorbona). Al di là dell’orientamento apertamente socialista – propenso ad una più equa ripartizione del reddito nonché ad un progressivo miglioramento delle condizioni di vita della classe salariata −, tra i punti programmatici del primo Ba‘th vanno elencati la tutela della libertà di parola e dei diritti umani, nonché il principio della laicità dello Stato. Ora, come ha ampiamente mostrato John Devlin, è fuor di dubbio che i regimi di Saddam e Assad abbiano tradito i propositi iniziali del Ba‘th piegandoli all’instaurazione di domini dinastici autocratici; è però altrettanto vero che, in entrambi i casi, si è trattato di governi ampiamente secolarizzati, dove il legame con l’islamismo ha sempre svolto una funzione prevalentemente propagandistica − cioè mai fondamentalistica − finalizzata più che altro al mantenimento del consenso.

Il caso egiziano è altrettanto emblematico. Nasser prima, Anwar al-Sadat poi, ed infine Mubarak, pur perpetrando un regime militare certamente autoritario e quantomai lontano da una democrazia, hanno però sempre osteggiato l’affermarsi di formazioni politiche d’ispirazione fondamentalista. Basti pensare che dopo il colpo di stato repubblicano del ’52, Nasser, una volta divenuto Primo Ministro (’54), si scontrò duramente con i Fratelli Musulmani che tentarono persino di eliminarlo fisicamente mediante un attentato a seguito del quale i principali esponenti dell’organizzazione, sciolta manu militari, vennero condannati a morte. Il suo successore, Sadat, venne assassinato nel 1981 da un affiliato alla Jihad islamica egiziana che si ispirava all’islamismo radicale di Sayyid Qutb (esponente dell’ala oltranzista della Fratellanza, giustiziato nel ’66) − il che dimostra ancora una volta di più la profonda distanza del governo egiziano dall’islamismo fondamentalista.

Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte circa la Libia di Gheddafi: il colpo di stato del 1969 che lo portò al potere, è ancora una volta riconducibile ai principi socialisti del panarabismo laico d’ispirazione nasseriana.

Vi sarà certamente chi, a scapito di queste tesi, vorrà addurre il caso dell’Iran. Si tratterebbe però di un’obiezione non pertinente. L’ascesa di Khomeini – e la conseguente trasformazione dell’Iran in una Repubblica Islamica – non è comprensibile senza considerare la destituzione del governo Mossadeq, rovesciato dopo aver intaccato gli interessi statunitensi con la nazionalizzazione dell’Anglo-Iranian Oil Company. Il colpo di Stato – la cosiddetta Operazione Ajax – ordito dai servizi segreti britannici e statunitensi – che nel ’53 riporto al potere lo Shāh Reza Pahlavi, stroncò infatti sul nascere le riforme democratiche promosse da Mossadeq. È dunque lampante che la rivoluzione conservatrice khomeinista del ’79 non fu che una diretta conseguenza della restaurazione, da parte statunitense, dell’autocrazia filo-occidentale dei Pahlavi. Avendo soffocato il processo di modernizzazione promosso da Mossadeq, fu proprio l’intervento statunitense a determnare quello stato di congestione politica che, imponendo il ritorno dello Shāh, creò terreno fertile per una reazione insurrezionale sotto il segno dall’islamismo politico degli Ayatollah.

Questo per dire che cosa? Semplicissimo: che Siria, Iraq, Iran, Libia ed Egitto erano già ben più che avviati in un autonomo – per quanto certamente sofferto e contraddittorio − percorso di modernizzazione in senso laico della società civile. I dilaganti focolai fondamentalistici che, più o meno recentemente, si sono sviluppati in quelle zone, altro non sono che l’esito della sciagurata politica messa in atto in quei territori dall’Occidente negli ultimi decenni – basti pensare all’appoggio, destabilizzante, degli Stati uniti alla ribellione contro Assad, su cui perfino Obama ha dovuto far marcia indietro, visto il progressivo affermarsi dell’Is. E che dire del nefasto intervento in Iraq? Un disastro strategico che ha irrimediabilmente sovvertito l’equilibrio politico della zona, così come le operazioni militari francesi (operazione Harmattan) e angloamericane (operazione Odyssey Down) in Libia per destituire Gheddafi o la gestionedilettantesca – del collasso del regime di Mubarak che ha visto subentrare, almeno fino al 2013, l’islamismo dei Fratelli Musulmani guidati da Morsi. È stato l’Occidente, annichilendo ad uno ad uno tutti i tentativi politici di una modernizzazione laica del Medio Oriente, a trasformare il mondo islamico una polveriera ingestibile. Ora però che le forze fondamentaliste colpiscono nel cuore dell’Europa, rimaniamo atterriti e stupefatti innanzi al fanatismo politico musulmano rappresentando − secondo una stucchevole, autoassolutoria proiezione infantile − l’Islam come costitutivamente atavico e antiprogressista, quando sono state le politiche dei nostri governi a renderlo tale – peraltro anche piuttosto recentemente.

Che fare, allora? Rispetto all’attentato a Charlie Hebdo non è possibile assumere né l’atteggiamento giustificazionista dei terzomondisti da salotto, né quello – affannosamente oltranzista – di chi vorrebbe un Occidente neo-templare, asserragliato in se stesso, che dichiari la guerra santa contro l’Islam. Proprio alla luce delle sue colpe – ormai la frittata è fatta −, l’Occidente, specialmente la sinistra oggi visibilmente in panne, deve invece assumersi una responsabilità politica massimamente impegnativa, ma irrinunciabile: secolarizzare l’Islam. Non coi droni o le granate, ma promuovendo in loco una radicale trasformazione dei suoi costumi e della sua dottrina. Il fondamentalismo va sconfitto nelle università, nelle scuole e nella società civile. Con un progetto culturale concreto e concorrenziale. Col cinema e con l’architettura. Innovando in infrastrutture e facendo leva sul sacrosanto desiderio di emancipazione che aleggia in quelle terre almeno quanto nelle nostre periferie più disagiate. Cioè a suon di investimenti e senza abbozzare catastrofiche crociate guerrafondaie. Sempre che non si vogliano trasformare le città europee in un campo minato, coi metal detector nei supermercati. Dove, nel giro di pochi anni, diventerà impossibile persino prendere un autobus senza temere il peggio.

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