Non è per essere il solito bastian contrario, ma a me sembra che nella querelle nata dalle pesanti accuse mosse dal presidente dell’ordine dei giornalisti Iacopino a Barbara D’Urso e diventata presto una sorta di “Iacopino contro il resto del mondo”, Iacopino abbia ragione. Certo, si sa che la ragione e il torto non si possono separare nettamente ecc. come ci ha insegnato il Manzoni, ma se l’accusa di abuso della professione giornalistica non era forse la più opportuna nella scelta dei termini, le repliche e i commenti negativi circolati sui media (e anche su Il Fatto Quotidiano) sono stati assai più inaccettabili. Lasciamo da parte le ironie degne di miglior causa, la retorica della libertà di espressione e le crociate contro l’ordine dei giornalisti che con la sua presenza ostacola la libera iniziativa di tanti giovani: tutte balle già sentite in tante occasioni. Concentriamoci sui due ragionamenti che sono alla base delle posizioni anti-Jacopino.

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Il primo punta sull’anacronismo del suo intervento, sostenendo che in un sistema mediale in cui da anni la pratica dell’intervista è diffusa nei più vari ambiti e generi della comunicazione, richiederne l’esclusività per i giornalisti è cosa fuori dal tempo e dal mondo. Si tratta di un’osservazione non certo priva di fondamento, ma che non affronta il vero problema. Cosa fare quando qualcuno, nel suo ruolo di intervistatore, va contro ogni regola di rispetto, di decenza, di buon senso e di civiltà? Già, perché credo siamo tutti d’accordo che l’intervento della D’Urso sul caso Ceste (una vera porcata per essere chiari) violava proprio tutte queste regole e anche altre. Allora, in questo caso, se il responsabile è un giornalista incorre in una serie di giudizi ed eventualmente di sanzioni, visto che è tenuto al rispetto delle regole di deontologia che il suo ordine professionale riconosce come fondamentali e inviolabili. Ma se chi le infrange non è giornalista, come si può arginare il suo malcostume, la sua irresponsabilità? Mi sembra che la definizione di abuso della professione, corporativa e impopolare quanto si vuole, centri un problema reale e delicato.

Il secondo ragionamento anti-Iacopino punta invece sul lassismo di queste regole deontologiche all’interno della categoria. Si dice: ma come si può pretendere di intervenire fuori della cerchia dei giornalisti quando all’interno se ne sono fatte di tutti i colori? E giù a enumerare tutti i pasticci fatti dai giornalisti e rimasti impuniti o perdonati. Ma, se mi permettete, così è come dire che, essendo moltissimi coloro che pur avendo la patente non rispettano i limiti di velocità, non mettono le cinture e passano con il rosso facendola sempre franca, allora tanto vale lasciar guidare anche chi la patente non ce l’ha. A me pare invece che il ragionamento dovrebbe portare nella direzione opposta, a pretendere maggior rigore e maggiore responsabilità da parte di tutti. E visto che le interviste le fanno tutti, giornalisti e non, allora il problema posto dal presidente dell’ordine, se si guarda alla sostanza invece che alla forma, non è affatto quella pinzillacchera che qualcuno ci vuol far credere.

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