Reyhaneh è stata impiccata in Iran con l’accusa di avere ucciso l’uomo che tentò di stuprarla. A nulla sono valsi gli appelli internazionali per salvare la donna, uccisa all’alba del 25 ottobre. E la stessa sorte è prevista anche per Asia Bibi, 48 anni, pachistana di fede cristiana. L’Alta Corte di Lahore ha infatti respinto il ricorso contro la condanna a morte per “blasfemia” in primo grado, presentato da difensori della donna, accusata di aver “insultato” il profeta Maometto in un litigio con altre due donne musulmane. Un atto che comporta la pena di morte in base alla controversa legge sulla blasfemia in vigore in Pakistan, i cui detrattori ritengono che sia uno strumento di ricatto usato per regolare dispute materiali e personali, ma che è difesa con le unghie e i denti da molti imam e dagli islamisti. Per salvare la vita di Asia, Articolo 21 ha rilanciato una petizione internazionale che, finora, ha già raccolto oltre 680mila firme in tutto il mondo.

L’avvocato della donna, Shakir Chaudhry, ha spiegato che, malgrado la difesa abbia presentato argomentazioni scritte che “smontavano l’impianto accusatorio, smascherando testimoni poco credibili e l’evidente costruzione di false accuse, il giudice ha ritenuto valide e credibili le accuse delle due donne musulmane (due sorelle) che hanno testimoniato sulla presunta blasfemia commessa da Asia”, ha raccontato Chaudhry, che ha annunciato ricorso presso la Corte Suprema e commentato: in Pakistan “la giustizia è sempre più in mano agli estremisti”. E una decina di imam ha lodato la decisione, scandendo slogan religiosi e annunciando festeggiamenti per quello che hanno definito “un giorno di vittoria per l’Islam”.

A favore di Asia Bibi, madre di cinque figli, in carcere dal 2009, si è mobilitata la comunità internazionale, con l’Italia e il Papa in prima linea. Ma in patria il suo caso è divenuto la mela della discordia nella disputa fra l’estremismo islamico, capillarmente diffuso in Pakistan, e una concezione più “liberale” delle leggi e dello Stato. Il caso Bibi e, in generale, la legge sulla blasfemia, hanno suscitato emozioni estreme fra imam e fondamentalisti ed è costato la vita a due politici pachistani: il governatore del Punjab (di cui Lahore è il capoluogo), Salman Taseer, crivellato di pallottole nel gennaio del 2011, che ha “pagato” per aver difeso la donna ed essersi pronunciato contro la legge, e l’unico ministro cristiano del governo di Islamabad, Shahbaz Bhatti, anche lui assassinato a raffiche di kalashnikov da un commando di talebani due mesi dopo per aver chiesto una riforma della stessa legge, considerata universalmente la più retrograda dell’intero mondo arabo e musulmano. E c’è chi ha giurato di uccidere Asia Bibi se dovesse uscire dal carcere.

La vicenda di Asia risale al 19 giugno 2009. Quel giorno, nell’azienda agricola dove lavorava, si accende una forte discussione sulla religione tra le operaie, in maggioranza musulmane: all’origine vi sarebbe dell’acqua che le altre due donne rifiutano di bere perché prima ne ha bevuto un sorso la cristiana Asia, respinta quindi come “impura”, in un’accezione dell’Islam che ricorda un po’ il sistema induista della caste. Ne nasce un litigio in cui Asia, in base a quanto asserito dalle due donne, difende il suo credo argomentando che “Gesù è vivo, Maometto è morto” e che “il nostro Cristo è il vero profeta di Dio, non il vostro”. Le due donne picchiano Asia e ne parlano a un imam, che sporge denuncia al tribunale di Nankana, che nel novembre 2010 emette la condanna a morte.

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