Un confronto di pregiudizi è impossibile. Così è inutile discutere dell’art. 18 su base ideologica. Sono le conseguenze che contano. Un lavoratore licenziato illegittimamente, se il reintegro previsto dall’art. 18 fosse abrogato, riceverebbe 15 mensilità di indennizzo e si aggiungerebbe alla lista dei disoccupati. Per questo l’abrogazione è una follia: l’ingiustizia patita (il licenziamento si assume illegittimo) non può essere riparata con risorse appena sufficienti a sopravvivere per poco più di un anno. Perciò un’eventuale riforma non deve essere basata sull’abrogazione del reintegro ma sulla tipizzazione dell’illegittimità del licenziamento. In altri termini bisogna riservare la sanzione-indennizzo, drammatica per il lavoratore, ai soli casi di licenziamento non gravemente illegittimo ovvero a quelli in cui il reintegro renderebbe incompatibili i rapporti tra lavoratore e azienda.

Ma non è semplice. Prima di tutto sarebbe necessario un radicale cambiamento della cultura sindacale italiana. Ad esempio: è inaccettabile la difesa corporativa dei lavoratori dell’aeroporto di Fiumicino responsabili di furto dei bagagli. Ma è un cambiamento difficile: l’evoluzione delle confederazioni storiche è possibile, non quella dei sindacati autonomi.

C’è poi il problema dell’uniformità e prevedibilità delle sentenze. Ricordo un caso in cui il titolare di un’azienda di panetteria fu obbligato al reintegro di un dipendente che, fuori dall’orario di lavoro, intratteneva rapporti con la moglie di lui nei locali dell’azienda: si servivano dei tavoli della panificazione (non so se, alla fine, ripuliti adeguatamente). Si trattava – disse il giudice – di condotte che non avevano influito sulla regolarità della prestazione lavorativa.

E ancora, occorrerebbe definire meglio il concetto stesso di illegittimità: il licenziamento di un dipendente che rifiuta sistematicamente il lavoro straordinario quando la domanda cresce, può essere considerato illegittimo? E, comunque, può essere sanzionato con il reintegro? Ci sono poi le situazioni create ad arte. Da ambedue le parti. Una modifica formalmente corretta delle condizioni di lavoro, che lo renda più oneroso e induca il dipendente alle dimissioni o a inadempienze che consentano il licenziamento. Ovvero un atteggiamento ostruzionistico del lavoratore che, avendo trovato altra occupazione, spera in un contenzioso che gli garantisca l’indennizzo.

Come si vede, è necessaria un’attenta discrezionalità del giudice a garanzia di un’equa decisione. Ma in questo modo si pregiudica l’uniformità delle sentenze. Un dilemma irresolubile. Resta il fatto che il problema non può essere sottovalutato come, irresponsabilmente, fa Renzi. Non è vero che il reintegro riguarda non più di 3.000 lavoratori ogni anno (40mila casi di articolo 18, l’80% risolti con un accordo, ne restano 8mila, in 4.500 il lavoratore perde, in 3.500 vince e in due terzi dei casi ha il reintegro. Stiamo discutendo di una cosa importantissima che riguarda 3mila persone l’anno). Se il contenzioso non fosse sulla scelta tra reintegro e indennizzo, le offerte del datore di lavoro sarebbero meno generose. E soprattutto non si può dire che il dramma di 3.000 persone (all’anno) private dei mezzi di sussistenza sia irrilevante. Uno statista non confonde la real politik con il cinismo. Un politico sì. Ma, di gente così, l’Italia ha fatto il pieno.

Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2014

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