La chiamano Belgitude e ha il volto delle migliaia di ragazzi che lo scorso fine settimana hanno riempito le piazze del paese per festeggiare la qualificazione al Mondiale. Il termine era stato coniato nel 1976 dallo scrittore Pierre Mertens e alludeva alla perenne incompiutezza dell’identità belga. Ora il concetto è stato ribaltato: l’odierna Belgitude rappresenta il rinnovato patriottismo che, complice il pallone, Bruxelles sta riscoprendo. Un sentimento quasi inedito in un paese diviso da sempre, dove Fiamminghi e Valloni condividono poco o nulla.

Esattamente un anno fa l’N-Va, la nuova alleanza fiamminga, trionfava alle elezioni comunali di Anversa. Nelle Fiandre, la regione del Nord ricca e industriale, si tornava a parlare apertamente di indipendenza. Per farlo servirebbe la maggioranza dei seggi nelle elezioni federali del prossimo maggio. Per la prima volta il progetto separatista sembrava avere chances concrete, visto il crescente clima di insofferenza per le tasse del governo Di Rupo e per l’austerity imposta dai vicini di casa dell’Unione Europea. Nelle scorse settimane però qualcosa è cambiato. Secondo un recente sondaggio l’N-Va è ferma al 27% dei consensi, per la prima volta sotto al 30% dal 2010. In Belgio i commentatori politici sono unanimi nel parlare di “effetto Diavoli Rossi”.

I successi della nazionale di calcio, assieme all’incoronazione di re Filippo e al nobel per la fisica a Francois Englert, stanno ricompattando il paese. Non è un caso che su al Nord, nelle Fiandre, la qualificazione a Brasile 2014 non sia stata festeggiata da tutti. Jan Peumans, presidente del parlamento regionale fiammingo e esponente dell’N-Va, ha ammesso di aver tifato contro la squadra e di considerare la Belgitude una cosa ridicola. Più diplomatico il leader del suo partito, Bart De Wever, che alla domanda “Lei tifa Belgio?” si è però rifiutato di rispondere. Cavalca l’onda invece Elio Di Rupo, diventato primo ministro nel 2011 dopo 540 giorni senza governo.

Di Rupo, primo presidente francofono dal 1979, dopo la vittoria per 2-1 contro la Croazia si è fatto fotografare con i giocatori all’aeroporto di Bruxelles. I calciatori paiono consapevoli del ruolo politico che stanno incarnando in questa fase e non si tirano indietro. “Il Belgio è di tutti” è stato il commento, non privo di polemica, del capitano Vincent Kompany appena staccato il ticket per il Brasile. Kompany, forte centrale del Manchester City è nato 27 anni fa a Uccle, vicino Bruxelles da genitori congolesi. Nella squadra convivono a meraviglia valloni come il fenomeno del Chelsea Eden Hazard, fiamminghi come il napoletano Mertens o Vermaelen assieme a un gruppo straordinario di naturalizzati e di ragazzi di seconda generazione. Oltre a Kompany hanno origini congolesi Lukaku e Benteke. Moussa Dembele arriva dal Mali e Axel Witsel, pagato un anno fa 40 milioni dallo Zenit di Spalletti, dalla Martinica.

Poi c’è la colonia marocchina: Fellaini, playmaker capellone del Manchester United assieme a Bakkali e Chadli. Li allena Marc Wilmots, ex centrocampista soprannominato ‘il maiale da combattimento’ per la sua grinta. Caratteristica dimostrata anche in politica: Wilmots è stato eletto in parlamento nel 2003 con il Movimento Riformista francofono, rivali della Nuova Alleanza dei fiamminghi, salvo lasciare dopo due anni. Da ct è stato bravo a modellare la squadra e fortunato a trovarsi tra le mani tutto quel talento. Una generazione di fenomeni sotto cui ne sta già sorgendo un’altra: l’Under 21 belga, rivale dell’Italia nel girone di qualificazione, ha già messo in mostra elementi di sicuro avvenire. Tutto è iniziato una quindicina di anni fa quando le istituzioni sportive decisero di puntare forte sul rilancio dei settori giovanili e sull’integrazione. Una progettualità che in poco tempo ha permesso ai Diavoli rossi di tornare a spaventare le grandi potenze europee e sudamericane. E con loro i separatisti del Nord che vedono il loro sogno allontanarsi a suon di gol.

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