Per vent’anni è stato in silenzio, muto dietro le sbarre della sua cella nel carcere di Opera. Poi piano piano ha cominciato a lanciare segnali. E a lasciare a metà, sospese tra i virgolettati di verbali, frasi che definire criptiche sarebbe un eufemismo. Se c’è un uomo che conosce la verità sui tanti e misteriosi rivoli di sangue che hanno flagellato la recente storia italiana, quell’uomo si chiama Salvatore Riina.

‘U curto’, la belva, il capo dei capi di Cosa Nostra che dichiara guerra allo Stato facendo strage di politici, magistrati e cittadini lungo tutto il biennio al tritolo inaugurato dall’omicidio di Salvo Lima e approdato poi al patto tra pezzi delle Istituzioni e la mafia. “Ma io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me” ha detto il boss corleonese soltanto lo scorso 31 maggio, durante una pausa del processo sulla Trattativa. Ad ascoltarlo due funzionari del Gom (Gruppo operativo mobile della Polizia). Che esterrefatti hanno subito compilato una relazione di servizio in cui davano conto delle frasi pronunciate da Riina. Perché le ultime uscite del capo dei capi confermano implicitamente l’atto d’accusa della procura di Palermo, che ha ricostruito come i primi agganci tra mafia e Stato furono sicuramente cercati da alcuni esponenti delle istituzioni. Sarebbero stati gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno (entrambi imputati nel processo sulla Trattativa) i primi ad agganciare l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, per cercare un canale di comunicazione con lo stesso Riina.

Le parole del boss corleonese fanno il paio anche con quelle utilizzate dalla corte d’Assise di Firenze. “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des, e l’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia” scrivono i giudici fiorentini ella sentenza sulla strage di via dei Georgofili. Ma non è tutto. Colloquiando con gli agenti del Gom, che supervisionavano il collegamento in video conferenza tra i carcere milanese di Opera e l’aula bunker di Pagliarelli a Palermo, Riina si fa “sfuggire” anche altro. E conferma la ricostruzione dei pm anche in un altro passaggio cruciale: quello sul suo arresto il 15 gennaio del 1993 da parte del Capitano Ultimo. Un passaggio cruciale nel puzzle del patto Stato – mafia, reso ancor più misterioso dalla mancata perquisizione del covo del boss, poi ritrovato completamente vuoto. “Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com’è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?A me mi ha fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono i carabinieri” ha detto Riina ai due funzionari della polizia penitenziaria.

Lo stesso Massimo Ciancimino aveva raccontato l’apporto fondamentale dato da Bernardo Provenzano nell’individuazione del rifugio di Riina. E già nove anni fa il capo dei capi aveva rilasciato dichiarazioni criptiche sulle dinamiche che portarono al suo arresto. “Perché non si sente il figlio di Ciancimino che era in contatto con il colonnello dei carabinieri che era allievo di quelli che mi hanno arrestato? Perché il figlio di Ciancimino che collaborava con sto colonnello non ci dice perché cinque, sei giorni prima l’onorevole Mancino ci dice: Riina questi giorni viene arrestato. Ma a Mancino chi ce lo disse cinque, sei giorni prima che Riina veniva arrestato? E allora ci sono questi signori che mi hanno venduto” Era solo il 2004, di Trattativa non si parlava ancora e la collaborazione di Ciancimino junior non esisteva. Riina però, intervenendo davanti alla corte che lo processava, dimostrava di avere molto da dire.

E molto dice anche in quella pausa del 31 maggio. Nega di aver conoscere il papello, “non so niente, mai visto”, la lista con le richieste di Cosa Nostra allo Stato. Poi tira in ballo i servizi segreti. “Il pentito Giovanni Brusca – si legge nella relazione compilata dai funzionari del Gom e contenente le parole di Riina – il primo a parlare del papello, non ha fatto tutto da solo, c’è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l’agenda. In via D’Amelio c’erano i servizi”. Sulla strage di via d’Amelio Riina era stato ascoltato un anno e mezzo fa dalla procura di Caltanissetta. E anche lì la sue dichiarazioni erano più piene di ombre che di luci. “Perché al Castel Utveggio – dice Riina al procuratore nisseno Sergio Lari – ci sono i servizi segreti quando scoppia la bomba di Borsellino? E allora qui come siamo combinati? Chi ha commesso questo omicidio di Borsellino? Chi sono queste queste persone? Loro facevano trattative con Lo Donno (ovvero De Donno ndr) con Mori, con altri..io sono stato arrestato da Mori e sono qua”. Davanti a Lari, Riina fece cenno al famoso bacio che avrebbe “stampato” sulla guancia di Giulio Andreotti. E se la prende con Giancarlo Caselli: “Non me l’ha mai chiesto se ho baciato o no o Andreotti”. Quello per il sette volte presidente del consiglio è un vero cruccio per Riina, che anche davanti ai funzionari del Gom ritorna sull’argomento. “Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre”.

La relazione dei funzionari del Gom è stata prodotta stamattina al processo sulla Trattativa dai pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Proprio nei giorni scorsi alcuni ignoti si erano introdotti nell’appartamento di quest’ultimo: dall’abitazione del giovane magistrato sarebbe sparita proprio una pen drive che conteneva alcuni verbali ancora non depositati.

@pipitone87

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