Si stanno ormai avvicinando il Natale e la festa di Capodanno e cominciano a uscire le guide gastronomiche ed enologiche, da quella de “Il gambero rosso” a quella dell’“Espresso” fino alle Guide del gatronauta, curate da Davide Paolini per “Il sole 24ore”. La gastronomia e l’enologia possono rientrare tra i comparti privilegiati dall’interrogazione estetologica e filosofica o ne rimangono escluse in linea di principio?

A rispondere in maniera risolutamente affermativa al quesito è Luca Vercelloni, già coautore insieme a Gualtiero Marchesi de La tavola imbandita. Storia estetica della cucina (Bari-Roma, Laterza, 2011). Nella sua fatica letteraria, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa (Eterotopie, Mimesis, Milano), Luca Vercelloni aspira ad allargare la nozione di gusto fino a comprendervi gastronomia ed enologia. In tal modo la storia della gastronomia subisce le stesse cadenze di qualsiasi altro genere artistico; si pensi, per esempio, al dibattito tra la Nouvelle Cuisine, nata nella Francia degli anni Settanta, e la Grande Cuisine di derivazione ottocentesca. Dibattito tra un paradigma di cucina che nasce in provincia, al di fuori del circuito dei grandi alberghi, ad opera di “ristoratori proprietari” che, articolando la proposta gastronomica in maniera più flessibile e meno pomposa, promossero un grande rinnovamento e un paradigma, invece, monumentale, barocco, destinato rapidamente a soccombere.

La Nouvelle Cuisine sostiene una nuova poetica delle ricette insieme a una suggestiva scenografia delle pietanze, ma, come spesso accade nella storia delle idee, la supremazia di questa prospettiva non può essere considerata duratura e irreversibile. Infatti, a distanza di più di vent’anni dalla sua consacrazione, la Nouvelle Cuisine regredisce a una forma esasperata di accademismo, preparando con la sua decadenza una nuova svolta nella storia della gastronomia.

Il radicale sperimentalismo che caratterizza l’atteggiamento estetologico e filosofico della Nouvelle Cuisine, sopravvalutando al massimo il primato sensoriale della vista su quello del palato, finisce per irrigidirsi in una ricerca autoriale fine a se stessa, che altera i sapori naturali e veraci. Una volta esauritasi la carica innovativa rispetto a una cucina artefatta e ingessata, la Nouvelle Cuisine viene a sua volta scavalcata da una cucina fondata sul primato delle materie prime e degli ingredienti. Come suggerisce molto bene Luca Vercelloni, nella Nouvelle Cuisine “la visione del cibo non ha più la funzione stimolante e aperitiva, ma finisce per anteporre l’estetica alla tecnica, la fotogenia alla gastronomia, l’intrigo della stupefazione al responso del gusto” (p. 250). Anche la storia del gusto, in sintonia con quella più in generale delle idee, viene dunque scandita da svolte, discontinuità e metamorfosi.

Dopo il trionfo dell’innovazione, si assiste al ritorno della tradizione, che ha ovviamente metabolizzato nel profondo la svolta precedente: dopo l’algido intellettualismo di una cucina pur geniale come quella del cuoco germanico Beck, quella artigianalmente compiuta del Roscioli di via dei Giubbonari a Roma, il cuoco “dialettico” per eccellenza, ossia colui che ha saputo trovare il giusto equilibrio tra sperimentalismo innovatore e rispetto per le esigenze del ‘materiale’ della grande tradizione regionale italiana.   

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