Da qualche anno vado a nuotare in un centro sportivo di antica tradizione meneghina. Le attrezzature sono ottime: piscina olimpica, campi da tennis, palestra. L’abbonamento è piuttosto salato, per gente benestante (in giro si vedono solo Il Giornale e Libero). Nei primi tempi, per tre volte di fila, mi hanno fregato i quattrini che avevo lasciato nei vestiti. Allocco io, ma non pensavo che in un posto del genere ci fosse gente che va a frugare nelle tasche altrui. (Invece avrei dovuto essere ammaestrato. Una macchina me l’hanno rubata nel lussuoso parcheggio sotterraneo di Canale 5, sotto il Palazzo dei Cigni, a Milano Due. Se non è stato Berlusconi, sarà stato Dell’Utri).

Capita l’antifona, adesso di soldi in piscina non ne porto più. In compenso mi hanno scassinato varie volte l’armadietto. Portano via le modeste cose che ci sono: l’accappatoio, un paio di costumi, le ciabatte.

Citofonano: “Ho un pacco per la signora P.” dice una voce italiana. “Guardi che ha sbagliato. Al 16 trova la sign…”. Non mi fanno nemmeno finire la frase e buttano giù il microfono senza dire né ‘scusi’ né ‘grazie’. Accade quasi quotidianamente per un caso di semiomonimia.

Capita spesso che per la strada mi chiedano un’informazione. Sulle prime mi stupivo che si rivolgessero a un vecchio talpone come me. Poi ho capito. Intorno c’è solo gente attaccata al cellulare o con l’iPad sulla pancia come un marsupio. Se è un giapponese si inchina tre volte. Se è un ‘chicano’ mi sorride. Alle volte facciamo quattro chiacchere. Un italiano gira il c… senza dire ‘ba’.

Qualche tempo fa, districatomi dai funerali di Bocca, cercavo un posteggio taxi. Vedo sul marciapiede una vigilessa, bassa, tarchiata. “Mi scusi, sa dov’è un posteggio taxi?”. “No”. E “E piazza Baracca?”. “Che ne sacciu”. Un tempo a Milano c’era ‘il ghisa’, un personaggio mitico. Disarmato, stava a metà fra il vigile di quartiere e il ‘bobby’ londinese. Alto, di bell’aspetto, milanese, era un punto di riferimento per i meneghini che si rivolgevano a lui per qualsiasi problema: “Guarda, c’è lì il ghisa”, “chiedilo al ghisa”, “chiamiamo il ghisa”. Adesso ci sono questi qua che non conoscono nemmeno la topografia della città.

Mi telefona il direttore di un importante quotidiano. Vuole vedermi. “Va bene”. “Chiamami tu lunedì mattina. Lunedì, diligente, telefono. “Sono in riunione, ti richiamo fra cinque minuti”. Mai più sentito.

La direttrice di un mensile ‘online’ vuole un’intervista. Arriva a casa mia in pompa magna, con un’operatrice, una regista, una redattrice. La cosa si prolunga. Suonano alla porta. “Visto che ero qui” dice la tipa “ho fatto venire un’altra persona che devo intervistare”. Per la verità io avrei da lavorare, ma lascio fare (“Par delicatesse j’ai perdu ma vie” scrive Rimbaud). Quando finisce la prego di dirmi dove e quando uscirà l’intervista. “Certo”. Sparita.

Viene da me Oleg, moldavo, un muratore che si presta anche per lavoretti da factotum. Viene due sere di seguito perché la prima, per un lavoro a modo, gli mancavano certe viti. Gli chiedo: “Quanto le devo?”. “Niente”. “Come niente?”. “Erano cose minime. Sono un muratore, mi chiami se ha bisogno”. Per gli stessi lavoretti chiamo, a volte, il mio elettricista. Per la sola uscita sono 30 euro e fa sempre in modo di lasciare qualcosa di incompiuto per poter ritornare.

Adesso anche da noi gli impiegati agli sportelli pubblici hanno, come in Svizzera, la targhetta sul petto con nome e cognome. Solo che in Svizzera al terzo rilievo li cacciano a pedate nel c…. Da noi rimangono indolenti e sgarbati, tanto chi li punisce?

Io penso che la prima riforma da fare in Italia sia quella della buona educazione. È questo stillicidio di sgarberie, di furberie, di squallidi latrocini che inquina la nostra vita e, alla fine, esaspera. Uno di questi giorni ammazzo qualcuno.

Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2012

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