“Restano i miracoli”, dice il dottore. “Non nel mio quartiere”, replica Arletty, una delle protagoniste di Miracolo a Le Havre, l’ultimo (e ottimo) film di Aki Kaurismäki. Un lustrascarpe, una moglie malata, un cane. E un ragazzino africano immigrato, arrivato in Francia con un container. Il titolo (italiano) rimanda a Miracolo a Milano, lo stile ricorda Melville, Renoir e Bresson. Un film poeticamente terribile. E un lieto fine che non nasconde il chiaro “messaggio politico” del regista. Come ha scritto Lorenzo Rossi su Doppio Zero: “Ce l’ha con l’Europa tutta, Kaurismäki. Ce l’ha con un sistema globale che privilegia il denaro e dimentica le persone e con un apparato sovranazionale che utilizza i mezzi della legge per escludere invece che per accogliere. Ma soprattutto ce l’ha con la società contemporanea, una società che crede nei miracoli senza rendersi conto invece, che le tragedie accadono ogni giorno”.

Il cinema degli altri racconta il mondo, ci si confronta e ci si sporca. Rischia, denuncia, disturba. Il nostro, quasi sempre, alla storia preferisce il cazzeggio e al dramma il ridanciano. Perfino gli americani, che sul predominio dell’entertainment hanno costruito un impero, sembrano tornati qua e là alla militanza sanamente didascalica (Le idi di Marzo).

In Italia la tendenza è appena diversa. Salvo rari casi, il menu prevede cinepanettoni scaduti e commediole accomodanti, con quel dolciastro retrogusto autoassolutorio che tanto rassicura. Addio cinema civile, ma pure arrivederci commedia all’italiana (quella vera). Del presente non si parla, a meno che non sia pittoresco. Niente disoccupati, niente immigrati, niente sindacati. Niente razzismo, se non per tramutarlo in salamelecco bipartisan (Benvenuti al Sud, Benvenuti al Nord, Benevenuti nel Nulla). Al cinema si va per ridere, ché la vita è già triste di suo: mica vorrete pensare anche guardando un film? Disimpegno, dunque: e risa, e ammicchi, e famose du’ spaghi. Tutti insieme appassionatamente, bamboccioni e maggiorate, anelando ardentemente a un invito di Bruno Vespa per un pregnante dibattito sull’immaturità dei quarantenni.

Eppure altrove non è così. Ancora Francia, ancora un film semplicemente calato nel suo tempo, Le nevi del Kilimangiaro, di Robert Guédiguian. Un uomo licenziato, rapinato da un (apparente?) gruppo di balordi di cui fa parte un ex collega di lavoro. Licenziato pure lui. Da una parte il desiderio di giustizia e vendetta, dall’altra i sensi di colpa per un egoismo tanto comprensibile quanto sordo alla congiuntura sociale. Corpi proletari e forza dell’etica, ha sintetizzato Marzia Gandolfi su MyMovies. Capacità simbionte, e minimale, di fotografare il presente: ovvero ciò che, tra un buffetto e un effetto speciale, dovrebbe inseguire il cinema. Soprattutto quello europeo, adesso poi che gli spunti straboccano.

E invece. I francofoni si interrogano, gli italiani evadono (in tutti i sensi). Disinnescano. Mike Leigh, da queste parti, non si vedrebbe garantito il salario. Chi esce dal seminato rischia il rovescio commerciale e, nei casi più fortunati, conquista l’etichetta a doppio taglio di cineasta d’essai (Martone). Mazzacurati non racconta più Vesne e tori, Giordana ha avuto successo solo quando ha accettato di stemperare l’epica in (riuscito) fumetto generazionale. E di soli Gomorra, Magliana o Servillo non si può vivere. Il punto non è evitare il politico, quanto piuttosto – e peggio – il quotidiano. La vita comune.

Le pellicole “civili”? Noiose. Scabrose. Non appetibili. Molto meglio il favolistico, il buonistico. Il bozzetto edulcorato e vagamente commovente. O, per i più temerari, la sghignazzata di pancia. Il cinema italiano, fatti salvi i soliti noti (e più che altro ignoti), vive in una torre di cartapesta. Si è blindato in una camera stagna, a prova di realtà: non è verde, come quella di Truffaut, ma vanta colori sfavillanti. Un fuoco d’artificio continuo, un Carnevale perenne. Fuori tempo, ma sempre di moda. Praticamente un’anestesia ilare.

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2012

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