“Se rinunciasse all’orecchino sarebbe perfetto: un grande leader non ha bisogno di ciondoli, brillocchi e pendagli”. Questo scriveva nei giorni scorsi lo scrittore Giampaolo Rugarli sulla Gazzetta del Mezzogiorno. L’uomo a cui è rivolto l’invito di “rinunciare all’orecchino”, naturalmente, è Nichi Vendola, il governatore pugliese che non piace ai vertici Pd ma che secondo alcuni sondaggi (ai quali è interessato anche il Cavaliere) risulterebbe il vincitore di eventuali primarie per il candidato premier del centrosinistra.

A riportare l’osservazione di Rugarli aprendo così un dibattito orecchino-sì/orecchino-no ovvero “c’è vita oltre l’orecchino?” ci ha pensato Giovanni Valentini nella sua consueta rubrica del sabato su Repubblica. Valentini scrive giustamente che “nella società della comunicazione” i simboli riescono a trasmettere “un contenuto o un messaggio in modo più immediatamente efficace di un discorso o un ragionamento”. Per cui, continua il giornalista, “quell’orecchino è per Vendola: “un segno distintivo”, un simbolo alternativo che “a parte l’omosessualità dichiarata” riaggancia Nichi alla sua storia di “matrice comunista”, alla sua fede di “cattolico praticante” e al suo impegno “fortemente caratterizzato in senso meridionalista”.

Per Valentini ora però è tempo di cambiare: quel cerchietto d’oro nella migliore delle ipotesi “rischia di ridursi all’ostentazione simbolica di un atteggiamento sessuale che viene legittimamente rivendicato proprio in ragione dell’ambito più intimo e privato”; nella peggiore può diventare “un reperto da eccentrici” o anche una “civetteria”. Un problema vero, quel lobo forato, in quanto fornirebbe “un pretesto polemico ai suoi avversari interni ed esterni”. È tempo insomma di fare un passo avanti: “Se l’orecchino era la metafora di una originaria diversità, adesso la scelta di abbandonarlo potrebbe contribuire ad una ‘nuova narrazione’ del suo personaggio pubblico finalmente “più governativo e meno alternativo”, “più affidabile e meno rivoluzionario”, anche perché “non esistono nel mondo occidentale altri premier che sfoggiano monili del genere”.

Bisogna dire che il dibattito sul cerchietto, d’oro o d’argento che sia, è molto appetitoso (se ne occupa anche ilPost), onore dunque a Valentini per averlo sollevato. Ma se sul piano estetico la sua analisi sembra troppo preda di una serie di luoghi comuni piuttosto datati, sul piano politico suggerisce una metafora suggestiva: quel gesto di levarsi il cerchietto, quella decisione privata intrapresa davanti allo specchio di casa, per il nuovo aspirante leader assurgerebbe ufficialmente ad un rito di identità. I lobi finalmente cicatrizzati diventerebbero così simbolo di una necessità oggettiva del “comunista gentile”: trasformarsi, da uomo di parte, in uomo di tutti.

Sui luoghi comuni diciamo velocemente. Pensare che oggi un timido orecchino possa ancora scandalizzare qualcuno è sintomo di una certa sfasatura nel racconto della società italiana. La moda di forarsi le orecchie è arrivata con i punk, negli anni ’80, e da allora non si è più fermata (immaginiamo che siano davvero molti i maschi italiani, dai 50 anni in giù, che hanno avuto a che fare con orecchie forate, in prima persona o almeno per sentito dire). Anche considerare la “pancia” dell’elettorato ancora simile a quella bachettona che votava Dc contribuisce a sfocare l’obiettivo (basta pensare a Berlusconi che praticamente non ha ceduto nulla in termini di consenso per il Noemi-gate e le varie papi-girl). Oggi la casalinga di Voghera, se esiste, guarda Uomini e donne, ascolta in radio Platinette e non vede l’ora che arrivi l’estate per sfoggiare con le sue amiche il nuovo taguagetto.
Aggiungiamo infine che è molto rischioso imboccare la strada dell’ipocrisia quando si parla di “morale comune” su stili di vita e gusti sessuali. Se bastasse un orecchino a scandalizzare la popolazione, cosa si direbbe allora alla prima uscita pubblica di un first-mister?

Se questo è il lato estetico, la questione si fa ben più interessante sul piano della metafora. Se frega poco di quel cerchietto sul lobo di Nichi, interessa di più l’idea di un Vendola che toglie l’orecchino alla sua immagine politica, un Vendola non di parte ma “di tutti”. Questo passaggio, se vuole correre davvero, appare inalienabile. “Togliere l’orecchino alla sua proposta”, badare bene, non vuol dire abbracciare il “riformismo” parolaio al quale ci abituato il Pd e che in molti casi suona più come un pretesto per sedere ai tavoli che contano che un progetto per cambiare il paese. Ma vuol dire smettere giocare di sponda, di rimessa, solo dall’opposizione, come si è visto finora.

Si danno per probabili le elezioni il prossimo 27 marzo. Qual è il programma del governatore della Puglia per il governo nazionale? Ieri il nostro giornale ha pubblicato un suo intervento. Parole belle, condivisibili. No a Berlusconi, al precariato, ai licenziamenti; sì alle primarie, alla rettitudine il politica, all’ambiente, alla partecipazione, ai giovani. Ma può bastare questo per guidare un paese? Bill Clinton durante la sua prima campagna elettorale (nel 1991) scrisse a caratteri cubitali nel suo quartier generale: “IT’S THE ECONOMY STUPID!”. E’ l’economia, idiota! Voleva ricordare a se stesso ed al suo staff che la battaglia del potere si gioca sull’economia. Il candidato premier Nichi Vendola, allora, cosa propone sulla questione numero uno della politica: qual’è la sua ricetta per rimettere in moto l’economia, per genera crescita? Questa è la domanda dalle 100 pistole.

Le persone, gli elettori, si innamorano di storie impossibili (Obama ne è la perfetta dimostrazione). E gli italiani ancora di più, non sono nuovi a stupire e a stupirsi (i pugliesi l’hanno già fatto). Ma se c’è un orecchino che Vendola deve togliere, è quello al suo programma elettorale: da uomo di opposizione deve diventare uomo di governo. Con proposte concrete avrà voti, fiducia e potrà continuare ad andare in giro con tutti i piercing che vuole.

PS: per la cronaca chi scrive ha quattro fori alle orecchie (per ora sgombri)

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