Regolarmente, i paesi ricchi “estraggono” da quelli poveri molto più denaro di quanto vi trasferiscano in forma di aiuti o investimenti. Stupisce però che ciò accada anche per le somme destinate alla lotta ai cambiamenti climatici. Eppure è quanto risulta da una dettagliata indagine dell’agenzia Reuters, secondo cui Stati Uniti, Germania, Francia, Giappone ed altre nazioni ricche stanno incassando ingenti interessi sui prestiti concessi con queste finalità. In base ad accordi siglati nel 2009 e rinnovati nel 2015, i paesi più sviluppati si sono impegnati a destinare 100 miliardi di dollaro ogni anno agli altri stati per sostenere la loro lotta alla crisi climatica, che ha peraltro ripercussioni che ignorano i confini. Questa cifra non è sinora mai stata raggiunta ma, peggio, quello degli aiuti è diventato un business redditizio.

Gli aiuti diretti da paese a paese presi in esame dall’indagine sono ammontati, tra il 2015 e il 2020, a 189 miliardi. Il 54% sono prestiti su cui si pagano interessi, spesso elevati. In un prestito da 118 milioni concesso dalla Francia all’Ecuador, il tasso è stato ad esempio del 5,9%. Non di rado ci sono altre condizioni, come quella posta dal Giappone che chiede ai debitori di acquistare macchinari e attrezzature solo di sua produzione, tagliando fuori eventuali altre opzioni più convenienti.

Dai dati analizzati da Reuters, tra il 2015 e il 2020, il Tokyo ha erogato 10,2 miliardi di dollari sotto forma di prestiti a tassi di mercato, la Francia 3,6 miliardi, la Germania 1,9 miliardi e gli Usa 1,5 miliardi. Altri 24 paesi Ue hanno concesso prestiti per 10,6 miliardi, anche in questo caso con la condizionalità di rivolgersi alle aziende e ai servizi degli stati creditori. Spesso, peraltro, questi prestiti sono andati a stati che si trovano già faticano parecchio a rispettare i loro obblighi debitori. Tra i paesi in condizione di stress finanziario l’Egitto ha, ad esempio, ricevuto prestiti per 2,1 miliardi, il Kenya 1,9 miliardi, lo Sri Lanka 1,5 miliardi, l’Iraq 1,1 miliardi, El Salvador 381 milioni. Spesso i paesi più poveri sono anche quelli più esposti alle conseguenze dirette dei cambiamenti climatici.

“I finanziamenti per il clima non dovrebbero essere un’opportunità di business”, ha affermato Liane Schalatek, direttrice associata della filiale di Washington della Fondazione Heinrich-Boll, un think tank tedesco che promuove politiche ambientali. I paesi del “sud del mondo stanno affrontando una nuova ondata di debito causata dalla finanza climatica”, sottolinea Andres Mogro, ex direttore nazionale dell’Ecuador per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Mentre Ritu Bharadwaj, del britannico International Institute for Environment and Development, rimarca come “I benefici per i paesi donatori stanno offuscando in modo sproporzionato l’obiettivo primario di sostenere l’azione per il clima nei paesi in via di sviluppo”.

Il testo dell’Accordo di Parigi contiene una certa dose di ambiguità sulle caratteristiche che dovrebbero avere questi finanziamenti. Non vi si afferma esplicitamente che le nazioni sviluppate devono farsi carico dei danni prodotti da loro in passato ma ci sono riferimenti ai principi di “giustizia climatica” ed “equità” . L’accordo lascia intendere che ci si attende che i paesi sviluppati svolgano un ruolo di sostegno finanziario agli altri stati ma senza specificarne le modalità. Le Nazioni Unite hanno stimato che servono investimenti per almeno 2mila e 400 miliardi di dollari l’anno a livello globale al fine di raggiungere gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi (contenere entro 1,5 gradi l’incremento della temperatura globale rispetto ai valori pre-industriali). Per ora siamo però lontanissimi da queste cifre, tanto che molti esperti danno ormai per “perso” l’obiettivo prioritario dell’accordo.

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