È stato definito dalla stampa angloamericana “un libro ricco di soluzioni pragmatiche e pieno di speranza”, un “antidoto all’iperpessimismo che pervade il discorso sul clima”. E non a caso, Non è la fine del mondo (pubblicato in italiano di Aboca) è già un successo editoriale, tradotto in quasi venti Paesi nel mondo. L’autrice, Hannah Ritchie, è una giovane scienziata, ricercatrice del Programma per lo sviluppo globale dell’Università di Oxford e vicedirettrice e capo del Dipartimento di ricerca del progetto “Our World in Data”.

Ritchie chiarisce subito di “non essere assolutamente una negazionista” – d’altronde è una scienziata – né di avere alcuna intenzione di minimizzare il cambiamento climatico e delle sue conseguenze. Ma, spiega, il mondo ha un disperato bisogno di positività e l’ottimismo non va confuso con “il cieco ottimismo”, quello sì pericoloso, che consiste di fatto nel sedersi e aspettare senza fare nulla.

Secondo la ricercatrice, non solo noi non siamo l’ultima generazione che esisterà sulla faccia della Terra, ma al contrario “potremmo essere la prima generazione ad avere la chance di lasciare l’ambiente in condizioni migliori di quelle in cui lo abbiamo trovato”. Serve, dunque, soprattutto agire e come farlo viene spiegato nelle quattrocento pagine del volume.

Ridurre l’inquinamento è possibile

Prima, però, Ritchie sfata alcuni miti, come quello secondo cui in passato l’umanità fosse sostenibile, quando invece non aveva alternativa ai combustibili fossili (se non quella di restare poveri). Inoltre, ricorda come soltanto nel 1800 il 43% della popolazione infantile moriva prima dei cinque anni, mentre negli ultimi 200 anni l’aspettativa di vita è raddoppiata, anche se il rischio della “bomb population” è già scongiurato perché, spiega, il piccolo delle nascite a livello mondiale è già stato superato. Abbiamo cibo per tutti, purché si facciano subito scelte razionali e improntate alla scienza.

Il primo tema affrontato è l’inquinamento atmosferico, che purtroppo miete ancora oggi milioni di vittime. Tuttavia, è probabile, secondo la scienziata, che ci stiamo avvicinando al picco del numero di morti da inquinamento, perché il numero totale delle vittime è lo stesso da decenni. Inoltre, cambiare si può e l’autrice ricorda tre fatti: il crollo verticale dell’inquinamento sul territorio cinese tra il 2013 e il 2020, la soluzione del problema delle piogge acide negli Stati Uniti e in Europa risolto aggiungendo reagente alle ciminiere degli impianti a carbone e il calo del 99,7% del buco dell’ozono grazie al protocollo di Montreal entrato in vigore nel 1989.

Sull’inquinamento sono stati fatti passi avanti grazie alle macchine meno inquinanti di ultima generazione, ma il passo fondamentale è la conversione all’elettrico, unita, dove possibile, a un abbandono della macchina.

Come tagliare (davvero) le emissioni

Rispetto alle emissioni e all’aumento della temperatura, Ritchie afferma che sicuramente andiamo incontro a un mondo più caldo, superando i due gradi, ma senza politiche per il clima avremmo rischiato un aumento di 4 o 5 gradi. Inoltre, il mondo ha già superato il picco delle emissioni pro-capite, accaduto nel 2012 e “sono ottimista sul fatto che potremmo raggiungere il picco delle emissioni globali nei prossimi dieci anni”, spiega la ricercatrice, che ricorda, nuovamente, come le cose siano cambiate: ad esempio nel Regno Unito ancora nel 1950 tutta l’energia derivava dal carbone, mentre oggi alimenta il 2% della rete. Nel frattempo, eolico e fotovoltaico sono diventate le fonti più economiche. Anche la minaccia che manchino litio, nichel e altri minerali può essere confutata. Ce n’è abbastanza per tutti e il riciclo, cioè l’economia circolare, aiuta moltissimo.

Ma l’atto più rivoluzionario che possiamo fare per ridurre le emissioni è mangiare meno carne bovina, seguita da agnello, prodotti caseari, carne di maiale e pollo. Incide meno rispetto alle emissioni, invece, a differenza di quanto si possa pensare, mangiare cibo locale o biologico. Anche scegliere il chilometro zero non è così fondamentale, sia perché la maggior parte dei prodotti viaggiano per nave sia perché ciò che conta non è la distanza percorsa ma dove (e come) il cibo viene prodotto.

Deforestazione, il problema non è l’olio di palma

La deforestazione è un problema terribile per il clima, ma questo, secondo la ricercatrice, dovrebbe dare la spinta per agire. Ci sono tuttavia alcuni dati che ci invitano a essere ottimisti. Non è vero che la deforestazione dell’Amazzonia sia al suo massimo storico, in realtà il picco è stato negli anni Novanta. Non c’è dubbio che il mondo abbia abbattuto molte foreste, ma, di nuovo, la deforestazione a livello mondiale è diminuita rispetto al picco degli anni Ottanta e rispetto agli anni novanta (-26%). La cattiva notizia è che la si concentra nelle aree tropicali e subtropicali, che ospitano ecosistemi ricchissimi e stoccano carbonio: per questo un’azione su cui concentrarsi è fermare la deforestazione nelle aree tropicali, aiutando i paesi svantaggiati.

L’autrice si sofferma sulla querelle dell’olio di palma, sostenendo che il rischio è rappresentato dalla sostituzione con l’olio di cocco e di soia, che richiedono un’estensione di terreno ben maggiore.

Cibo per tutti, come fare

Sfamare otto, nove, dieci miliardi di persone senza distruggere il Pianeta è possibile, purché i cereali prodotti non vengano usati come mangime per animali o bicombustibile (41% e 11%), ma per scopi esclusivamente alimentari. Non bisogna inoltre eccessivamente demonizzare fertilizzanti e agricoltura intensiva e neanche, secondo Ritchie, gli alimenti geneticamente modificati.

Altro mito da sfatare: la plastica cattiva. In effetti, ha anche effetti positivi, ad esempio mantiene il cibo sicuro e fresco, riducendo lo spreco. Inoltre, rende i veicoli più leggeri facendo sì che emettano meno emissioni. Il problema non è tanto la plastica in sé, ma quella non gestita adeguatamente e a rischio di sversamento negli oceani.

Pesci, quell’aiuto che viene dall’acquacoltura

Sul calo della biodiversità c’è confusione. Questo perché, afferma Ritchie, tendiamo a prestare un’attenzione eccessiva alle specie dal minor valore funzionale (ad esempio i panda) e ignoriamo quelle che, invece, influiscono in qualche modo sulla nostra sopravvivenza (tipo vermi e batteri). Sicuramente, ridurre la superficie agricola, mangiando meno carne, e usare in maniera più accorta pesticidi e fertilizzanti ridurrebbe la perdita di biodiversità.

Quanto al presunto collasso globale dei pesci: non è vero, lo sfruttamento delle riserve ittiche ha rallentato la sua corsa. Inoltre la piscicoltura o acquacoltura, l’equivalente dell’allevamento di mucche, maiali e polli sulla terra ferma, è un’ancora di salvezza.

La sostenibilità è la stessa polare dell’umanità, conclude l’autrice. E possiamo raggiungerla, se ci impegniamo seriamente, orientando il cambiamento con il nostro voto e modificando il nostri consumi, senza dilaniarci con dissidi interni con questioni non importanti (come nucleare sì e no). “Abbiamo alternative. Abbiamo la possibilità di costruire un futuro migliore per tutti. Trasformiamola in realtà”.

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