Il codice penale del Marocco vieta l’aborto a meno che non sia praticato da un medico o da un chirurgo che hanno l’abilitazione e sia ritenuto necessario per salvaguardare la salute o la vita della donna. Chi abortisce o prova ad abortire per altre ragioni rischia da sei mesi a due anni di carcere, cui potrebbero aggiungersi ulteriori condanne per il “reato” di relazione sessuale extramatrimoniale.

La legge proibisce la diffusione di informazioni sull’aborto, impedendo così alle donne di prendere decisioni consapevoli sulle loro gravidanze. “Incitare all’aborto” in qualsiasi modo, anche parlandone in pubblico o distribuendo materiale, può comportare fino a due anni di carcere. I professionisti sanitari che praticano aborti al di fuori della legge rischiano di perdere l’abilitazione. Possono anche essere obbligati, nei processi giudiziari, a fornire notizie su aborti illegali di cui siano venuti a conoscenza.

Stando così (male) le cose, molte donne devono ricorrere ad aborti clandestini, insicuri e spesso costosi oppure a metodi pericolosissimi: abuso di farmaci, ingerimento di sostanze chimiche, violenza fisica autoinflitta o fatta da altri. Non poche tentano il suicidio.

Farah (non è il suo vero nome) è stata stuprata da un collega mentre era a terra, svenuta a seguito di un attacco di diabete. Due mesi dopo ha scoperto di essere incinta e si è recata da un ginecologo, che ha rifiutato di praticare l’aborto. Il suo datore di lavoro l’ha sospesa in quanto, se fosse stata indagata per relazione extraconiugale, avrebbe danneggiato la reputazione dell’azienda. Ha cercato di interrompere da sola alla gravidanza ma, nonostante le ferite e un’infezione, è stata costretta a portarla a termine:

“Ho provato tutti i tipi di erbe e qualsiasi bevanda potessero procurarmi un aborto. Sono andata da un erborista, ho fatto un infuso ma mi sono sentita male e basta. Sentivo l’intestino a pezzi ma niente. Un giorno, nella mia stanza, mi sono spogliata e ho inserito un lungo bastone nella vagina, muovendolo in tutte le direzioni ma gli unici risultati sono stati dolore dappertutto e una profonda ferita. Ho anche tentato il suicidio”.

Ecco dunque che tutto, tragicamente torna: l’impunità per gli stupratori, la criminalizzazione delle relazioni extraconiugali e quella dell’aborto. Donne non sposate, la cui gravidanza sia frutto di violenza o di una relazione fuori dal matrimonio, non possono abortire e partoriscono nello stigma familiare e collettivo che marchia le madri celibi. Queste non ricevono il libretto di famiglia, essenziale per registrare la nascita dei figli e per ottenere i certificati necessari per l’assistenza medica o per mandarli a scuola.

I loro figli non possono portare il nome del padre biologico dato che la filiazione paterna è riconosciuta solo a seguito di un matrimonio legalmente contratto, non possono ricevere sostegno economico dallo Stato e non hanno diritto all’eredità.

Questo e altro lo trovate descritto in un rapporto pubblicato alcuni giorni fa da Amnesty International, intitolato: “Mi hanno rovinato la vita. La necessità di decriminalizzare l’aborto in Marocco”. A partire da questa pubblicazione, Amnesty International ha avviato una campagna per chiedere di decriminalizzare l’aborto nel paese nordafricano.

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