William I. Robinson è docente di sociologia, studi globali e internazionali, all’University of California. È autore di diversi libri tra cui Global Capitalism Endure? (2022), Global Civil War: Capitalism Post Pandemic (2022), The Global Police State (2020). Tanti i temi affrontati in questa intervista con Ilfattoquotidiano.it, dalla guerra in Ucraina e a Gaza, alle spese per armi e repressione del dissenso e alle proteste universitarie con il filo conduttore del ruolo svolto dai conglomerati industriali e finanziari globali.

Professor Robinson, nei suoi libri ricorda spesso come il capitalismo, per le sue dinamiche interne, produca inevitabilmente delle crisi. Il tasso di profitto scende finché qualcosa non interviene a rialzarlo. Dopo il 2008 la stagnazione sembra però diventata cronica. È possibile che in questa fase anche le spese militari vengano utilizzate per sostenere il saggio del profitto? Dopotutto, anche Reagan lo fece con le sue guerre stellari con Star Wars, negli anni ’80…

Si, è in effetti quello che sta accadendo. In passato ci riferivamo alla spesa militare pubblica usata per smuovere l’economia da una condizione di stagnazione come ad un keynesismo militare. Questa politica ha svolto un ruolo importante nel sostenere elevati tassi di crescita nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale e poi, di nuovo, sulla scia della crisi degli anni ’70 e la grave recessione dei primi anni ’80, quando Reagan lanciò appunto le cosiddette Guerre Stellari. Tuttavia, ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è qualcosa di molto più profondo e radicale.

Si tratta di quello che io definisco un’ accumulazione militarizzata e un’accumulazione attraverso la repressione. E’ una militarizzazione molto più marcata sia dell’economia, sia della società. Una condizione che ha preso piede con vigore dopo l’11 settembre 2001. Da allora viviamo in pratica in un’economia di guerra globale permanente. L’accumulazione di cui parlo riguarda il modo in cui la classe capitalista transnazionale, appoggiata dai principali stati capitalisti, fa sempre più affidamento sugli investimenti in sistemi di controllo sociale, repressione e guerra transnazionali per continuare a realizzare profitti, in un contesto di stagnazione cronica e progressivo calo del tasso di profitto.

In termini reali, il budget del Pentagono è aumentato del 91% tra il 2001 e il 2011, mentre i profitti dell’ industria militare sono quasi quadruplicati. D’altra parte, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina e della risposta dell’Occidente, la spesa militare è cresciuta ulteriormente. Non solo in Occidente ma in tutto il mondo, dalla Cina all’India, dal Medio Oriente Oriente e Messico. Naturalmente qui ci sono in gioco anche fattori geopolitici, dobbiamo però guardare come queste accumulazioni siano guidate dalla necessità di sostenere l’accumulazione globale.

Le spese militari statali, di intelligence e di sicurezza nazionale rappresentano solo una parte della storia. Assistiamo ad una fusione tra accumulazione privata e militarizzazione guidata dallo Stato. Le società militari e di sicurezza private sono un grande business. Ora ci sono 15 milioni di soldati – mercenari – in tutto il mondo che lavorano per decine di società private. Le più note sono il gruppo russo Wagner o la Academi, con sede negli Stati Uniti, prima nota come Blackwater. La più grande è la G4S con sede nel Regno Unito. Ci sono 20 milioni di poliziotti privati nel mondo e nella metà dei paesi del pianeta, il numero di poliziotti privati supera quello pubblico. Non si tratta solo degli appaltatori militari e di sicurezza. I colossi tecnologici e la finanza transnazionale sono pienamente integrate in questi circuiti. Il cosiddetto “mercato dei sistemi antisommossa” vale 500 miliardi di dollari. Quindi il fatto che i disordini civili siano in forte aumento in tutto il mondo a causa delle spaventose diseguaglianze è un’ottima notizia per tutte queste imprese.

Stiamo parlando solo di guerre tradizionali o anche di altro?

Stiamo parlando di tutti i tipi di guerra. Come le false guerre alla droga o al terrorismo, la persecuzione dei migranti e i sistemi di deportazione, la costruzione di muri di confine e di contenimento, l’espansione dei complessi carcerari-industriali e di detenzione degli immigrati. O ancora, la fortissima espansione della polizia, la diffusione del riconoscimento facciale e di altri sistemi di sorveglianza. Tutto ciò, e molto altro ancora, è fonte di ingenti profitti e aiuta a contrastare la mancanza di opportunità di investimento in altri settori. La guerra e la repressione diventano importanti sbocchi per scaricare il surplus di capitale accumulato. Ciò dà al capitalismo globale una spinta intrinseca verso la guerra, il conflitto civico e il conflitto politico.

La guerra in Ucraina è una tragedia per gli ucraini, per i russi e per i popoli del mondo. Ma si tratta di un’ enorme opportunità per i circuiti di accumulazione transnazionale delle multinazionali. Non c’è da meravigliarsi che un consulente dei fornitori militari statunitensi abbia dichiarato, poco dopo l’invasione russa, che “sono tornati i giorni felici”. Dovremmo forse stupirci del fatto che, all’inizio del genocidio israeliano a Gaza, un dirigente della Goldman Sachs abbia dichiarato: “quello che sta accadendo è ottimo per il nostro portafoglio”? Inoltre, il dispiegamento della forza pubblica e privata crea spazi che permettono ad altri settori del capitale transnazionale di accaparrarsi risorse.

Ad esempio, tutti questi dispiegamenti militari paramilitari e multinazionali nel Congo orientale sono stati usati come una leva per spaccare la regione e consentire il saccheggio delle sue vaste risorse minerarie. E ricordiamo un’altra cosa. Prima c’è un enorme profitto da ottenere dalle guerre, e dopo, un profitto ancora più cospicuo legato al business della ricostruzione. Pertanto, abbiamo cicli interminabili di distruzione e ricostruzione. Siamo insomma arrivati a un punto in cui la generazione di conflitti e la repressione dei movimenti sociali e delle popolazioni vulnerabili di tutto il mondo sono diventati una strategia di arricchimento, indipendentemente dagli obiettivi politici.

Cosa pensa, più nello specifico, del ruolo svolto dagli Usa in Ucraina e nei complicati rapporti con la Cina?

Naturalmente condanno senza la minima esitazione l’invasione russa dell’Ucraina. E non penso che la Cina stia estendendo la sua influenza planetaria con finalità benevole. Lo sta facendo perché, nonostante la sua pretesa di essere socialista, sta diventando una potenza mondiale capitalista, con un atteggiamento espansivo, con giganteschi interessi economici e politici che è sempre più determinata ad affermare. Tuttavia, ricordiamoci che è sbagliato confondere la spiegazione che diamo degli eventi con le posizioni politiche che assumiamo di fronte a questi eventi. Il Trattato di Versailles, che pose fine alla Prima Guerra Mondiale, stabilì condizioni incredibilmente onerose a carico della Germania che, alla fine, generarono le condizioni che facilitarono l’ascesa del nazismo. Questa è una spiegazione analitica ma non significa assolutamente che giustifichiamo il fascismo e il nazismo.

Allo stesso modo, l’espansione della NATO guidata dagli Stati Uniti, proprio alle porte della Russia, il suo rifiuto di fronte al tentativo di Mosca di stringere un’alleanza con la NATO e l’Occidente, hanno generato un clima che ha spinto la Russia a invadere l’Ucraina. Un rapporto del centro studi Rand del 2019 spiegava molto chiaramente come l’obiettivo degli Stati Uniti fosse quello di provocare la Russia. Quel rapporto affermava che Washington avrebbe intrapreso misure “che non avrebbero avuto né la difesa né la deterrenza come scopo principale”. Lo studio spiegava che “questi passi sono concepiti come elementi di una campagna per sbilanciare l’avversario, spingendo la Russia a competere in settori o regioni in cui gli Stati Uniti hanno un vantaggio e costringendo così Mosca a sforzi eccessivi da un punto di vista militare ed economico”

Cerchiamo di essere chiari: a Gaza è in corso un genocidio e non sono la Cina o la Russia a sponsorizzarlo. Sono gli Stati Uniti, insieme a Germania, Regno Unito e UE. Inoltre, in Occidente, i complessi militare-industriale-intelligence-sicurezza interna coinvolgono società private che esercitano pressioni sugli stati per espandere i budget e quindi ottenere enormi profitti con guerre e repressioni. Le industrie militari russa e cinese sono, per lo più, di proprietà statale e, sebbene abbiano obiettivi politici e militari strategici, non hanno come finalità primaria la generazione di profitti per soci privati. Questi stati sono quindi meno interessati a scatenare conflitti internazionali per ragioni economiche. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la Cina. Questo non significa assolutamente che dovremmo appoggiare e condividere le azioni del governo russo o di quello cinese. Sono governi repressivi ed autoritari che non rappresentano gli interessi delle classi lavoratrici nei loro territori e in tutto il mondo.

Professore, lei sottolinea l’esistenza di una classe finanziaria transnazionale e il fatto che le classi dirigenti dei vari paesi non sono in competizione tra loro ma hanno piuttosto l’obiettivo comune di sfruttare il più possibile i beni collettivi. A tal fine influenzano le scelte dei rispettive governi. Come si concilia tutto ciò con l’aumento dei conflitti tra Stati?

Nell’ultimo mezzo secolo di globalizzazione capitalista si è delineato un sistema produttivo, finanziario e di servizi integrato a livello globale, di cui fanno parte investitori di tutto il mondo. Man mano che società nazionali si sono internazionalizzate si è creata una rete di investimenti e partecipazioni incrociati molto fitta, soprattutto attraverso il sistema finanziario globale. Ad esempio, circa il 40% delle azioni delle società “americane” sono oggi di proprietà di investitori stranieri. L’esistenza di una classe capitalista transnazionale è lampante. Il mio collega Peter Phillips ha documentato che appena 17 conglomerati finanziari globali gestiscono insieme 41,1 trilioni di dollari, vale a dire più della metà del Pil dell’intero pianeta. Questi stessi conglomerati sono così interconnessi tra di loro che, separandoli in entità distinte è pressoché impossibile. Insieme formano una rete che avvolge tutto il mondo. Nessun paese può districarsi da questa rete e nessun paese, non importa quanto potente, può controllare il processo di accumulazione globale.

Ma la politica e l’economia sono oggi fuori sincrono. Al centro della crisi del capitalismo globale c’è una contraddizione fondamentale tra un’economia integrata a livello globale e un sistema di autorità politica ancora basato sugli stati-nazione. Ogni stato si trova così a vivere questa contraddizione. Da un lato deve attrarre capitali nel proprio territorio, in concorrenza con altri Stati. Ma deve anche garantire crescita e benessere e acquisire legittimità politica all’interno dei suoi confini. C’è quindi un contrasto tra la funzione di accumulazione e quella di legittimazione di ogni Stato.

La globalizzazione capitalista è, fondamentalmente, una guerra contro le classi lavoratrici e popolari. I livelli di disuguaglianza in tutto il mondo hanno raggiunto livelli impressionanti. Secondo Oxfam, solo l’1% dell’umanità controlla circa il 52% della ricchezza mondiale e il 20% controlla il 95% di quella ricchezza, quindi l’80% dell’umanità deve accontentarsi appena del 5%. Miliardi di persone affrontano quotidianamente una lotta per la semplice sopravvivenza.

L’insicurezza generalizzata e l’ansia sociale stanno dilagando ovunque. In queste condizioni gli Stati si trovano ad affrontare crisi di legittimità e cercano disperatamente di salvaguardare l’ordine sociale interno. Lo fanno in parte esternalizzando le tensioni, sia su gruppi identificati come capri espiatori, ad esempio i musulmani in India, gli immigrati latinoamericani negli Stati Uniti o quelli africani e mediorientali in Europa, sia scaricandole su altri stati. Il governo degli Stati Uniti ha evocato la Russia e la Cina come spauracchi da incolpare per la crisi sociale ed economica che ha colpito i suoi i lavoratori. È un vecchio trucco.

La globalizzazione e l’integrazione transnazionale dei capitali forniscono un impulso centripeto al capitalismo globale, mentre la frammentazione politica genera un’azione centrifuga che si traduce in un’escalation del conflitto geopolitico e nello sgretolarsi dell’ordine internazionale emerso dopo la Seconda guerra mondiale. Se il capitalismo globale è uno spazio politico eterogeneo, lo stato-nazione serve al capitale transnazionale come luogo centrale per l’organizzazione del potere, uno spazio da saccheggiare a favore della classe capitalista transnazionale, una riserva di risorse, lavoro sfruttabile e mercati. La crisi approfondisce la concorrenza tra il modello occidentale di capitalismo neoliberista, al quale i manager statali nei paesi centrali tradizionali sono legati per il loro vantaggio nella competizione interstatale, e il modello cinese di capitalismo di stato. Ciò spiega, almeno in parte, la crescita del rapporto USA-Cina conflitto geopolitico.

Lei dice che l’egemonia statunitense è servita ad aprire quanti più mercati possibile al capitale transnazionale. Ora questa egemonia sta diminuendo. Con quali conseguenze?

Man mano che l’egemonia degli Stati Uniti diminuisce, il conflitto geopolitico si intensifica. E parallelamente aumenta l’ attrito tra stati e capitale transnazionale. Come ricordavo, gli stati sono spinti a ricorrere al nazionalismo e al protezionismo per proteggere l’ordine sociale interno dagli effetti destabilizzanti dell’accumulazione sfrenata di capitale transnazionale. Attenzione, questo non è il protezionismo come lo conoscevano. Non punta a tenere fuori il capitale “straniero” e a proteggere il capitale “nazionale”, come cercava di fare protezionismo pre-globalizzazione. Si tratta, al contrario, di un protezionismo che prevede tariffe, sussidi e altri incentivi per attirare investimenti transnazionali nei propri confini. I capitalisti transnazionali non sono a favore di queste politiche. Vogliono un’economia globale aperta e la libertà da qualsiasi forma di interferenza statale che possa danneggiare le loro strategie di accumulazione globale. La classe capitalista transnazionale ha quindi condotto una campagna contro la Brexit nel 2019, si è opposta ai dazi di Trump e non è contenta del controllo statale cinese sui capitali.

Gli Stati Uniti stanno perdendo la capacità di controllare il processo di accumulazione globale con l’avanzare della globalizzazione. La posizione degli Stati Uniti come potenza egemonica del capitalismo mondiale si sta velocemente erodendo e con essa, la capacità dello Stato americano di agire su questi processi. L’interventismo statunitense a livello mondiale negli ultimi decenni, che qualcuno chiama in modo erroneo “ nuovo imperialismo”, è stato, almeno in parte, un tentativo disperato e futile da parte dei politici statunitensi di recuperare la capacità di regolare il capitalismo globale.

La fine del dominio occidentale sul capitalismo mondiale è prossimo mentre il centro di gravità dell’economia globale si sta spostando in Cina. Tuttavia la Cina non diventerà una nuova potenza egemone. Con il declino degli Stati Uniti, ci stiamo muovendo verso un sistema mondiale multipolare o policentrico all’interno di un’unica economia globale integrata che mostra diversi centri sovrapposti di intensa accumulazione transnazionale. Oltre al blocco di libero scambio nordamericano, la UE e le regione asiatica sino-centrica. Queste regioni sono integrate tra loro. La classe capitalista transnazionale le attraversa. Nessuna economia nazionale o regionale può più sopravvivere al di fuori della sua integrazione nella più ampia economia globale.

Lei è anche un grande esperto di America Latina. Cosa ne pensa di quanto sta accadendo in Argentina con il governo Milei?

Il rapporto di forza tra le varie classi in Argentina è in un vicolo cieco da tempo e la crisi economica è stata particolarmente acuta. Milei mira a rompere questa impasse, con un attacco a tutto campo contro la classe operaia. Negli ultimi tre decenni l’Argentina si è integrata nei circuiti di accumulazione del capitale globale, soprattutto con l’espansione delle esportazioni del settore agroalimentare. La lotta tra i gruppi dominanti in Argentina, in modo non dissimile da quanto accaduto in tutta l’America Latina, riguarda come accedere agli incassi generati dalla tassazione sull’export e la redistribuzione degli incassi pubblici. Il peronismo fa ancora presa su gran parte della classe operaia, ma ha perso influenza e prestigio con il peggiorare della situazione economica. Il tasso di inflazione è uno dei più alti al mondo. La povertà e le diseguaglianze sono aumentate.

Lo Stato argentino, governato dai peronisti o dall’estrema destra, si trova ad affrontare una crisi di legittimità molto grave. Cosa che accade un po’ in tutto il mondo. Sia la sinistra che la destra tradizionali hanno perso influenza, il che ha aperto spazi a populisti autoritari di estrema destra, ai cui margini esterni ci sono veri e propri fascisti. Trump, Bolsonaro e Milei, tra gli altri, rappresentano questa nuova genia, altamente carismatica in un suo perverso modo. Sono esperti di social media, abili nel manipolare la sfiducia delle masse nei confronti della classe politica corrotta e la disaffezione verso il sistema politico. Nonostante la loro retorica populista, eseguono gli ordini del capitale transnazionale senza preoccuparsi delle forme tradizionali di legittimazione.

In Argentina, però, Milei si confronta con una classe operaia che resta ben organizzata. Due scioperi di massa che hanno coinvolto milioni di persone lo hanno costretto ad abbandonare, almeno per il momento, alcuni dei suoi piani di privatizzazione e di smantellamento dello Stato. Milei simboleggia il desiderio del capitale transnazionale di avere un’assoluta libertà da qualsiasi controllo statale, una liberazione da qualsiasi impegno reciproco nei confronti della società e la libertà di sfruttare lavoro e risorse senza alcuna responsabilità.

Come si inserisce ciò che sta accadendo a Gaza nello scenario che ha descritto sinora?

La ristrutturazione capitalista globale dell’ultimo mezzo secolo ha implicato un vasta ondata di “espulsioni” in tutto il mondo. Centinaia di milioni di persone sono state sfollate dalle campagne dell’ex Terzo Mondo e dalla deindustrializzazione dell’ex Primo Mondo. L’eccedenza di manodopera, di coloro che sono strutturalmente emarginati e relegati ai margini, ammonta ora a miliardi di individui. Alcuni degli sfollati ed espulsi diventano migranti transnazionali. Finiscono nelle zone morte del confine tra Stati Uniti e Messico o nel Mediterraneo cercando di raggiungere zone più prospere nell’economia globale. E non c’è simbolo più potente e tragico del destino dell’umanità in eccedenza del genocidio perpetrato da Israele contro i palestinesi.

Il proletariato palestinese, soprattutto a Gaza, costituisce un “surplus di umanità”, che ostacola non solo il progetto coloniale sionista ma anche l’espansione capitalista globale in Medio Oriente. Il genero di Donald Trump, Jared Kushner, ha apertamente parlato della confisca di importanti immobili sulla spiaggia di Gaza. Non è il solo. Si prevedeva che Israele e Arabia Saudita normalizzassero le relazioni subito prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Tale normalizzazione avrebbe dovuto aprire la strada al massiccio ingresso di imprese e investimenti finanziari transnazionali nella regione. L’attacco di Hamas ha bloccato temporaneamente questi piani.

È in corso una rivolta globale sulla scia del collasso finanziario globale del 2008. La disaffezione di massa ribolle sotto la superficie di tutti. Le classi dominanti temono rivolte di massa. Il pericolo è che la criminalizzazione della solidarietà con la Palestina diventi una prova generale per un repressione di massa. Le linee di battaglia tracciate riguardo al genocidio riflettono le linee di battaglia globali. Gaza diventerà un modello di come le classi dirigenti gestiranno l’umanità in eccesso? Oppure la lotta popolare dal basso riuscirà a respingere la minaccia del fascismo? L’“opzione Gaza” è un campanello d’allarme sul fatto che il genocidio possa diventare uno strumento politico per risolvere il “problema” dell’umanità in eccesso.

Lei insegna negli Stati Uniti, cosa succede realmente nelle università? Non è incredibile che le università chiedano l’intervento della polizia? È vero che nelle proteste c’è anche antisemitismo?

Sembra che nei campus universitari americani la Costituzione sia stata sospesa. Ho colleghi che sono stati sospesi semplicemente per essersi espressi contro il genocidio sui social media o per aver firmato una petizione. Israele può controllare il campo di battaglia militare ma sta perdendo la battaglia politica negli Stati Uniti. Le università sono state il punto di partenza della solidarietà con la Palestina e gli studenti hanno preso l’iniziativa. Ma c’è molto di più.

Ciò a cui assistiamo è l’ascesa dell’università autoritaria. I nostri atenei sono sempre più un’estensione dello Stato capitalista. Le aziende affidano la ricerca e lo sviluppo alle università. Le aziende farmaceutiche, ad esempio, finanziano la ricerca nei dipartimenti di chimica e biologia, le grandi aziende tecnologiche finanziano programmi di ingegneria informatica e informatica, e le società industriale-militari finanziano i dipartimenti di ingegneria e fisica. Inoltre, l’apparato militare e di sicurezza del governo statunitense ha una presenza sempre maggiore nelle università di ricerca. C’è qui un collegamento con l’accumulazione militarizzata di cui ho parlato prima.

Le nostre università pubbliche hanno subito il definanziamento negli ultimi quattro decenni di neoliberismo. La principale fonte di finanziamento proviene ora dalle tasse scolastiche, che sono salite alle stelle, e da donatori aziendali e individuali. Del resto, lo stesso Israele ha donato 375 milioni di dollari in dotazioni universitarie. Queste dotazioni sono usate da società militari, industriali, tecnologiche e finanziarie che traggono vantaggio dall’occupazione delle terre palestinesi. Ad esempio, l’amministratore delegato di Palantir, Alex Karp, ha recentemente dichiarato: “Se perdiamo la battaglia intellettuale, non saremo mai in grado di schierare alcun esercito in Occidente”. Palantir è una società tecnologica multimiliardaria. Nel gennaio di quest’anno ha firmato una partnership strategica con il Ministero della Difesa israeliano per fornire tecnologia alle Forze di Difesa israeliane. Palantir effettua donazioni a università di ricerca di alto livello, inclusa la mia, l’Università della California, dove gli studenti hanno protestato contro il genocidio.

Gli accampamenti studenteschi mirano a fare pressione affinché gli atenei disinvestano dalle aziende che fanno affari con Israele e traggono profitto dall’occupazione e dal genocidio. È davvero deplorevole, davvero criminale, che le amministrazioni universitarie abbiano militarizzato i campus e chiamato la polizia. Ma una volta che si vede il legame tra l’università aziendale e la repressione dei palestinesi, le ragioni diventano più chiare.

L’antisemitismo è storicamente inteso come discriminazione, odio e pregiudizio nei confronti degli ebrei. Questo non c’è stato nelle proteste nei campus universitari. Anzi, di fatto gli ebrei americani giovani e meno giovani sono in prima linea in questa mobilitazione a difesa delle vite dei palestinesi. Israele ha cercato di modificare la definizione di antisemitismo per includere la critica al razzismo e all’apartheid israeliani. Il governo degli Stati Uniti, in quanto principale sponsor di Israele, ha adottato questa definizione per combattere la crescente opposizione. È ironico che i veri antisemiti siano l’estrema destra negli Stati Uniti che ora sostiene anche il sionismo. Il raduno fascista “Unite the Right” che ha avuto luogo in Virginia nel 2017 cantava “non lasceremo che gli ebrei ci sostituiscano”. Questa stessa destra fascista sostiene pienamente Israele. È incredibilmente ironico vedere questi elementi di estrema destra sventolare la svastica nazista e contemporaneamente sventolare bandiere israeliane e proclamare ammirazione per le forze di difesa israeliane.

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