Leggendo certa pubblicità ormai tutto è “verde”, “ecocompatibile” e “sostenibile” anche se, molto spesso, si tratta solo di un espediente per aumentare le vendite.

Un recente studio della Commissione europea ha valutato 150 dichiarazioni ambientali a livello di Ue in un’ampia gamma di gruppi di prodotti, constatando che una percentuale considerevole (53,3%) fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate sulle caratteristiche ambientali del prodotto (tanto nella pubblicità quanto sul prodotto stesso). E, sempre secondo la Commissione, esempi di dichiarazioni ambientali generiche sono: “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile“, “eco”, “verde”, “amico della natura”, “ecologico“, “rispettoso dal punto di vista ambientale”, “rispettoso dal punto di vista del clima”, “che salvaguarda l’ambiente”, “rispettoso in termini di emissioni di carbonio”, “neutrale in termini di emissioni di carbonio”, “positivo in termini di emissioni di carbonio”, “neutrale dal punto di vista climatico”, “efficiente sotto il profilo energetico”, “biodegradabile”, “a base biologica” o asserzioni analoghe, oltre alle asserzioni più ampie quali “consapevole” o “responsabile” che suggeriscono o danno l’impressione di un’eccellenza delle prestazioni ambientali.

Va quindi salutata con favore l’entrata in vigore dal 26 marzo 2024 della cosiddetta “Direttiva Green Claims”, ovvero la direttiva 2024/825/UE per la “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione”, approvata a gennaio dal Parlamento europeo con 593 voti favorevoli, 21 contrari e 14 astensioni, con l’obbligo di recepimento e di attuazione entro 24 mesi da parte degli Stati membri.

La direttiva, come si legge nella relazione della Commissione, modificando anche altre direttive esistenti, si propone di contrastare le pratiche commerciali sleali che distolgono i consumatori da scelte di consumo realmente sostenibili fornendo loro informazioni migliori in merito alla durabilità e alla riparabilità di determinati prodotti prima della conclusione del contratto e tutelandoli maggiormente dalle pratiche commerciali sleali quali dichiarazioni ambientali ingannevoli, guasti prematuri dei beni e l’uso di marchi di sostenibilità e strumenti di informazione inattendibili e non trasparenti.

Più in particolare essa vieta l’esibizione di un marchio di sostenibilità che non sia basato su un sistema di certificazione o non sia stabilito dalle autorità pubbliche, nonché l’uso di dichiarazioni ambientali generiche e non dimostrabili nelle attività di marketing rivolte ai consumatori, sancendo che le attività, i servizi e i prodotti che hanno ottenuto la certificazione vengano inseriti in un catalogo che viene pubblicato sul sito della Commissione europea; precisando, nel contempo, che sono vietate le etichette di sostenibilità “autocertificate” e che le verifiche per il rilascio della certificazione debbano essere tutte svolte da un soggetto indipendente e separato nella sostanza (e non solo formalmente) rispetto al titolare del sistema di certificazione e rispetto all’azienda che chiede la certificazione.

Dovrà, quindi, migliorare la situazione attuale in cui sul mercato dell’Unione sono utilizzate più di 200 etichette ambientali che “presentano importanti differenze nel modo in cui operano per quanto riguarda, ad esempio, la trasparenza e la completezza delle norme o dei metodi utilizzati, la frequenza delle revisioni o il livello di audit o verifica. Queste differenze hanno un impatto sull’affidabilità delle informazioni comunicate sulle etichette ambientali”.

Nel contempo, la direttiva, nell’ottica dell’economia circolare, si occupa opportunamente anche della obsolescenza e della riparabilità dei prodotti, premettendo che i prodotti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) sono quelli più soggetti a guasti inattesi, seguiti dai piccoli elettrodomestici e dagli articoli di abbigliamento e calzature. Di conseguenza, essa incentiva l’opzione di fornire informazioni migliori sulla durata di vita e sulla riparabilità dei prodotti per consentire ai consumatori di scegliere prodotti più sostenibili e partecipare all’economia circolare; soprattutto con riferimento alla obsolescenza precoce o programmata, voluta da “una politica commerciale che comporta la pianificazione o la progettazione deliberata di un prodotto con una vita utile limitata, affinché giunga prematuramente ad obsolescenza o smetta di funzionare dopo un determinato periodo di tempo”; denunciando che le pratiche di obsolescenza precoce incidono complessivamente in modo negativo sull’ambiente, dato che determinano un aumento dei rifiuti di materiali. Di conseguenza il loro superamento ridurrà verosimilmente la quantità di rifiuti, contribuendo a una maggiore sostenibilità dei consumi. E, correlativamente, la direttiva introduce l’obbligo di indicare l’”indice di riparabilità”, cioè un “indice che esprime l’idoneità di un bene ad essere riparato sulla base di un metodo stabilito conformemente al diritto dell’Unione”.

In sostanza, come efficacemente sintetizzato dalla relatrice croata Biljana Borzan “la Direttiva sulle ‘Green Claims’ cambierà il quotidiano di tutti gli europei. Ci allontaneremo dalla cultura dello scarto, renderemo più trasparente il marketing e combatteremo l’obsolescenza prematura dei beni. Le persone potranno scegliere prodotti più durevoli, riparabili e sostenibili grazie ad etichette e pubblicità affidabili. Soprattutto, le aziende non potranno più ingannare le persone dicendo che le bottiglie di plastica sono buone perché l’azienda ha piantato alberi da qualche parte, o dire che qualcosa è sostenibile ma senza spiegarne il come e il perché”.

Quanto alle sanzioni in caso di di violazione delle disposizioni sui marchi ambientali, esse comprendono anche l’esclusione temporanea, per un periodo massimo di 12 mesi, dalle procedure di appalto pubblico e dall’accesso ai finanziamenti pubblici, comprese procedure di gara, sovvenzioni e concessioni.

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