Con un decreto del 7 maggio scorso il ministero degli Esteri e il governo Meloni hanno deciso di allargare la lista dei paesi di origine dei migranti che l’Italia considera “sicuri”, includendo anche Paesi come Bangladesh, Camerun, Colombia,Perù e Sri Lanka, ma soprattutto l’Egitto di Al Sisi. Un provvedimento, firmato dai ministri Antonio Tajani (Esteri), Matteo Piantedosi (Interni) e Carlo Nordio (Giustizia), che ha attirato non poche contestazioni, anche dal fronte delle opposizioni, tra chi, come Riccardo Magi (+Europa), ha parlato di “schiaffo ai diritti umani e allo stato di diritto” e chi come Laura Boldrini (Pd) ha accusato: “Chissà cosa ne pensa la famiglia Regeni che proprio in queste settimane è in tribunale ad ascoltare come gli ufficiali dell’esercito del “paese sicuro” hanno depistato le indagini sull’assassinio di Giulio“. Ma non solo. Perché anche associazioni come Amnesty international spiegano di essere “sconvolte” dalla decisione: “Il regime del Cairo non è mai cambiato dal 2013 a oggi. Abbiamo sempre documentato torture e abusi nei confronti della popolazione civile, dei migranti che provano ad arrivare nelle nostre coste, così come le detenzioni di oppositori politici, donne, attraverso l’uso costante della violenza. Come può essere considerato un Paese sicuro?”, attacca Tina Marinari, di Amnesty Italia.
Secondo la legge (d.lgsl. 25/2008), “uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, ne’ pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.
Un quadro che quindi si fa fatica ad associare all’Egitto di Al Sisi, dove torture, persecuzioni, detenzioni arbitrarie e trattamenti inumani e degradanti sono all’ordine del giorno. A quanto pare, non per il governo, ascoltando le parole del ministro Antonio Tajani, interpellato dal Fattoquotidiano.it: “Quali valutazioni ha fatto la Farnesina rispetto all’Egitto? Che messaggio si manda con questa decisione alla famiglia Regeni? L’analisi che è stata fatta porta a dire che è un Paese dove possono essere riaccompagnati gli immigrati illegali“, taglia corto il ministro, senza rispondere su quali siano state le valutazioni della Farnesina. Per poi provare a rivendicare risultati di una presunta ‘collaborazione’ del Cairo. Una cooperazione che in realtà non c’è mai stata dall’Egitto sul caso Regeni, come ricostruito anche nelle prime udienze del processo sul sequestro, le torture e l’omicidio del ricercatore friulano, che vede imputati quattro 007 egiziani (Usham Helmi, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, sotto accusa per il reato di sequestro di persona pluriaggravato, e, nei confronti di quest’ultimo, per concorso in lesioni personali aggravate e il concorso in omicidio aggravato, ndr).
Ma Tajani insiste, tirando in ballo pure Patrick Zaki, infastidito per le domande: “Grazie alla collaborazione dell’Egitto, a differenza di quello che non hanno fatto i precedenti governi, abbiamo permesso a Zaki di venire in Italia. È stato ottenuto dal governo di centrodestra grazie ad un dialogo senza troppi rulli di tamburo o chiacchiere”‘. Nulla, invece, è stato ottenuto sugli indirizzi degli imputati del processo Regeni dalla Farnesina e da Palazzo Chigi, sullo sfondo della normalizzazione dei rapporti con il Cairo portato avanti da Giorgia Meloni (e pure dalla Commissione Ue targata Ursula Von der Leyen, che ci ha stretto un accordo in funzione anti-migranti, del valore di 7,4 miliardi di euro).
Così, nel momento in cui viene ricordato, il ministro degli Esteri sbotta: “Cos’è un contraddittorio o una conferenza stampa? Non li ha ottenuti nessun governo gli indirizzi…“. E ancora, in merito alle richieste di collaborazione del pm Sergio Colaiocco, che si era rivolto alla stessa Farnesina affinché si attivasse per la collaborazione dell’Egitto, raccogliendo reazioni stizzite dallo stesso Tajani, ora il ministro dice: “Stiamo aiutando anche la giustizia italiana a far consegnare attraverso il lavoro della nostra ambasciata le richieste per i testimoni per le persone che sono accusate . Noi non abbiamo mai mollato sul caso Regeni, un conto è la propaganda, un conto sono i fatti. Di più non possiamo fare”.
Pochi scrupoli si è fatta invece la Farnesina nell’inserire l’Egitto sulla lista dei Paesi considerati ‘sicuri’. La conseguenza sarà la fatica per i migranti nel cercare di ottenere la protezione internazionale, perché dovranno dimostrare che sussistano “gravi motivi” per richiederla, rischiando con maggiore probabilità di vederla respinta perché infondata. Arrivare da un Paese “sicuro” significa inoltre tempi stretti per l’audizione, la decisione e l’eventuale impugnazione del rigetto. E dunque una limitazione del diritto di difesa, oltre ai limiti posti al diritto a rimanere nel territorio dello stato fino all’esame completo della domanda. Ma soprattutto, i cittadini di paesi “sicuri” possono essere destinatari delle cosiddette procedure accelerate in frontiera, introdotte dal governo Meloni e adottate anche nel nuovo Patto migrazione e asilo approvato a Bruxelles e in attesa di essere reso operativo. Ma non solo. L’allargamento della lista aumenta le persone che, secondo le intenzioni del governo, potranno essere condotte nei centri italiani in Albania. Nel 2023, su 157mila sbarchi, oltre 12mila erano arrivi dal Bangladesh e 11mila proprio dall’Egitto. Tradotto, l’allargamento – come ha già raccontato il Fattoquotidiano – è sembrato quantomeno sospetto. “Dal governo soltanto realpolitik, si mettono i propri interessi davanti a quelli del diritto internazionale”, ha concluso Amnesty.
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