di Flavio Barbaro

“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Così recita l’articolo 49 della nostra Costituzione. Dall’articolo si intuisce come questi non siano istituzioni, perché si fondano non sulla funzionalità, ma sulle idee; d’altra parte, non sono nemmeno semplici associazioni, poiché hanno la possibilità di concorrere alla determinazione della politica nazionale.

La crisi dei partiti prende le mosse anche dal difficile percorso tra questi due fuochi. Sempre di più, a partire dalle “macchine di clientela” degli anni 80, la parola partito ha iniziato a perdere la sua forza ideale, dapprima con la crisi – non la fine – delle ideologie, poi con il terremoto giudiziario e politico degli anni 90 e la nascita del nuovo populismo. Questo ha portato i partiti a diventare sempre di più delle “macchine di governo”, le quali si sono spese per diventare sempre più comprensive e allargando progressivamente le loro basi, evitando ormai qualsiasi forma di scontro all’interno e all’esterno, tentando di imitare l’unità dei blocchi precedenti e di prendersi il centro, rimasto anch’esso senza riferimento, creando un sistema che normalizza matematicamente l’arco costituzionale con i grandi al centro e i piccoli ai lati. Ci si spinge quindi verso il puro lato amministrativo, cioè il fine di un partito, dimenticando però cosa lo crea, cioè le idee.

Infatti, il punto più decisivo della crisi dei partiti è proprio questo, sta iniziando a venir meno il motivo di quella “libera associazione” poiché non ci sono le idee che spingono l’azione politica. In poche parole, non si risponde alla domanda “perché?”. Ciascun partito della prima repubblica, dovendo rappresentare le coscienze di un paese distrutto, aveva dietro di sé un’idea costitutiva che spaziava dalla sociologia alla religione, dovendo fornire risposte per domande, dubbi e problemi che ci avrebbero seguito per generazioni. Non bastava capire cosa finanziare, era necessario capire anche perché finanziare. Erano quindi formazioni che concorrevano per il governo del paese, ma con lo scopo primario di applicare quelle idee, quantomeno così era nelle basi: partecipo ad un partito perché ho un’idea, non solo perché vinca.

Da qui però si presenta l’opportunità: la nuova generazione, così come la nostra epoca, è piena di dinamiche nuove, che portano al risultato finale dell’individualizzazione. Più connessi, eppure sempre più soli. Bisogna ripartire dal primo passo: quali sono le idee che ci spingono ad associarci in un partito?

L’occasione sta nel vuoto di risposte da parte della politica degli ultimi anni su questioni primarie che ormai scendono appunto fino all’individuo stesso, come la salute mentale, il welfare di comunità, il confronto con l’altro e soprattutto il nostro modello produttivo.

Ripartire da qui significa costruire nuove idee che fungano da direttrici, non abbandonando il dialogo in favore della regola, bensì abbandonando la regola del “non ci sono regole”. Bisogna sapere, ad esempio, se i progetti economici, scientifici e tecnologici che finanziamo sono indirizzati ad un fine o se il solo fine è il fatto che funzionino.

Ciò non significa lasciare indietro il passato, ma riprendere da dove ci eravamo fermati: ragionare su come il cristianesimo sociale sia fondamentale per comprendere circa un giovane su due, su come il liberalismo ci possa aiutare a capire la nostra etica, su come il socialismo ci aiuti a capire in che rapporto siamo con il nostro sistema economico e su come il “realizzarsi attraverso la libera attività” del Manifesto del Partito comunista sia più attuale che mai per capire che strada percorrere per il futuro.

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