Era il 1994 quando con Carlo Gubetti e Walter Perotto scrissi quello che ad oggi resta un testo unico sulle piste agrosilvopastorali, cioè sulle strade bianche di montagna realizzate per raggiungere alpeggi o fare legnatico. Si intitolava Piste o peste? (ed. Pro Natura), titolo che equiparava le strade bianche alla pestilenza.

Infatti allora denunciavamo come mancasse un’effettiva politica che coniugasse gli interessi di chi viveva in montagna con gli interessi della montagna stessa (intesa come autentico soggetto), cioè il rapporto uomo-ambiente. Quasi tutte le piste venivano aperte senza che ci fosse uno studio a monte che ne valutasse l’effettiva redditività, dimodoché si gettavano dalla finestra soldi pubblici (spesso di provenienza Ue) per aprire strade bianche, ristrutturare baite, senza che poi le mucche al pascolo ci andassero, oppure ci andassero per qualche anno e poi stop perché l’operazione non era remunerativa.

Tradotto: si sono fatti grossi favori ad imprese movimento terra (spesso locali), producendo ferite non rimarginabili alla montagna. Molte piste terminano oggi nel nulla. Era il 1994, quindi sono trascorsi trent’anni e di altre piste ne sono state aperte a decine, e le Valli di Lanzo, a due passi da Torino, non si sono certo sottratte alla stradomania, anche favorite da una normativa regionale in tema di vincolo idrogeologico che un tempo consigliava di confrontare più progetti di fattibilità (ad esempio le teleferiche per il taglio della legna), e oggi non più.

Uno dei casi più eclatanti, impattanti e assurdi fu il progetto presentato otto anni fa dal Comune di Groscavallo (Val Grande di Lanzo) di aprire una pista che raggiungesse il Gias Nuovo, nell’alto Vallone di Sea, uno degli angoli più intatti e selvaggi dell’arco alpino occidentale, reso famoso dalle vie di arrampicata aperte sulle sue ripide pareti di granito da Gian Carlo Grassi e altri famosi alpinisti torinesi.

Associazioni di alpinisti, appunto, ed escursionisti insorsero, e la stessa giunta regionale guidata da Chiamparino si dimostrò scettica. Il progetto fu abbandonato, ma il Vallone così intatto dava fastidio. Due anni dopo ecco presentato un progetto, questa volta di centralina idroelettrica, anch’esso caduto nel nulla. Ma è la pista che attira, la pista. E quindi ecco che adesso il vecchio progetto viene ripresentato dall’Unione Montana Alpi Graie (in pratica sempre l’amministrazione, in scadenza, di Groscavallo) seppure in formato minore, con arrivo (per ora “con la prospettiva di una sua prosecuzione al fine di raggiungere gli alpeggi successivi salendo lungo il vallone di Sea.”) al Gias Balma Massiet.

Al di là della redditività, al di là dei vincoli paesaggistici, al di là dei vincoli idrogeologici, però qui vorrei focalizzare l’attenzione su un aspetto. I tempi attuali ci dicono che la natura intatta sarà sempre più un valore, e in particolare, quindi, il turismo dolce in montagna una fonte di ricchezza. Ergo, rovinare un vallone intatto per il possibile (non certo) reddito di un margaro apporta un danno invece sicuro alla collettività: le si ruba letteralmente il futuro.

È di questo che occorrerebbe prendere coscienza. Al di là di qualsiasi considerazione non antropocentrica, che non mi cimento nemmeno ad accennare perché non verrei compreso. C’è una frase del citato Gian Carlo Grassi sul Vallone di Sea che, meglio di altre e sicuramente delle mie, svela la magia di questo angolo di Natura: “il tempo millenario abita qui, e quando si mette piede nel Vallone si avverte qualche cosa di unico e impenetrabile, affascinante come può esserlo soltanto ciò che è fuori dall’umano.”

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