Doveva essere il passaggio di consegne, è stato l’ennesimo capitolo della consacrazione. Saul ‘Canelo’ Alvarez, 33 anni, resta campione e solleva ancora più in alto le sue quattro cinture mondiali unificate dei supermedi; Jamie Munguia, 27 anni, deve ancora aspettare e gestire la delusione di esser arrivato a un passo dal sole e poi scoprire che è ancora troppo bollente per essere conquistato. Il testamento pugilistico è un momento preciso, iconico: quarta ripresa, lo sfidante attacca, il campione sembra subire, poi il lampo. Gancio sinistro schivato, risposta con gancio sinistro a segno, poi montante destro, preciso, forte, incontenibile: Munguia al tappeto. La storia che sembrava girare ha confermato il suo canovaccio. Perché anche se Munguia si è rialzato, anche se ha provato a rientrare nel match, anche se ha mostrato il solito coraggio ed evidenti miglioramenti nella fase difensiva, quel montante ha lasciato il segno: nella testa, nella consapevolezza che il viale del tramonto, per il campione di Guadalajara, è ancora lontano. Canelo ha vinto ai punti dopo le 12 riprese: 117-110, 116-111 e 115-111 i cartellini dei giudici, decisione unanime che però non spiega tutto, non analizza alcuni aspetti dell’importanza di quanto visto alla T-Mobile Arena di Las Vegas.

IL CAMPIONE – L’incontro aveva un significato simbolico altissimo. Fissato in una delle massime capitali mondiali della boxe, il 5 maggio, festa nazionale del Messico, con due pugili messicani a giocarsi lo scettro di una delle categorie più affascinanti. Da una parte il “vecchio campione“, capace di vincere in quattro differenti categorie di peso nel corso della sua lunghissima carriera: 60 incontri, 2 pareggi e solo 2 sconfitte, la prima nel lontano 2013 a opera dell’inarrivabile Floyd Mayweather Jr., l’ultima a causa di un eccesso. Due anni fa, l’8 maggio, Canelo ha tentato di vincere anche la cintura dei mediomassimi, perdendo ai punti quasi per impotenza contro il fuoriclasse russo Dmitrij Bivol. Da allora il campione ridimensionato ha combattuto altre tre volte, ha vinto sempre, ma non ha più dato l’impressione di invincibilità che ne aveva contraddistinto quasi sempre il suo cammino.

LO SFIDANTE – Per questo motivo gli appassionati di boxe erano convinti che lo scettro stava per passare di mano. E chi meglio di Jamie Munguia poteva diventare degno successore del pugile più amato al mondo? Sempre messicano (di Tijuana), più giovane (27 anni), imbattuto (43 incontri, nessuna sconfitta), mano pesantissima e stile puramente messicano, tutto attacco, densità e coraggio. Identikit perfetto. E Munguia ha lavorato sodo per farsi trovare pronto. Ha puntato sulla densità per far valere la differenza d’età a suo vantaggio, ha perfezionato molto la fase difensiva, da sempre suo tallone d’Achille, al tempo stesso non ha abbandonato le caratteristiche della sua boxe, fatta di tanti colpi e intensità.

IL COMBATTIMENTO – Ingredienti che in un primo momento hanno confermato i pronostici. È partito bene Munguia, ha colpito spessissimo Canelo alla figura, ha vinto la prima ripresa, ha perso (di poco) la seconda e si è aggiudicato la terza, sempre con lo stesso stile, tutto attacco e cintura perennemente in movimento. Però ha commesso un errore fatale: ha pensato che la strada fosse segnata, che Canelo si fosse abituato a subire, si è distratto un attimo e ha permesso al campione di inserirsi nello spiraglio. Uno spiraglio diventato breccia. Scatto da consegnare alla storia. Quarta ripresa, schivata, gancio, montante, ko: da insegnare ai ragazzini in palestra. Lì il match ha cambiato verso. Munguia si è rialzato subito, sguardo perso ma volontà di ferro: ha attaccato ancora, ha colpito, ha recitato la sua parte in un incontro da regalare agli annali per bellezza e intensità. Ma Canelo è Canelo, il solito Canelo, più forte del tempo: ha controllato, ha piazzato i suoi colpi, ha anche subito, ma la difesa e la sua straordinaria capacità di incassare colpi (si parla di uno dei migliori incassatori nella storia della boxe mondiale) hanno marcato la differenza, in una delle prestazioni più scintillanti di una carriera dorata. E allontanato chissà fino a quando il passaggio di consegne. Perché in Messico, quando si parla di boxe, il re è sempre, ancora e solo uno.

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