di Fiore Isabella

Al Generale Vannacci, da maestro pensionato della scuola Primaria, vorrei consigliare di astenersi dal parlare di disabilità, almeno fino a quando non avrà acquisito i principi portanti del termine inclusione educativa. Temo però che, su questa lunghezza d’onda, il generale non si sia affatto sintonizzato, nella comprensibile ansia di accreditarsi presso il viceministro Salvini, assurto da qualche tempo ad esperto pedagogo.

In questa foga, disperatamente tuttologa, si è accodato, anche se in tutto questo c’è tanto di suo, al filone della pedagogia identitaria di matrice divisiva. “Mettere insieme le persone con prestazioni simili”, come vuole Vannacci, non si presta ad altre interpretazioni se non all’idea di creare contesti educativi omogenei attraverso una selezione basata sulle diverse capacità di apprendimento degli alunni e, conseguentemente, sulla separazione dei cosiddetti normodotati dai portatori di difficoltà che, è bene precisare, accomunano gli alunni portatori di disabilità alle vittime di povertà culturali.

E poi quel termine “prestazioni” che, nella narrazione vannacciana, indebitamente da Marketing, sostituisce il concetto docimologico della misurazione dei livelli di apprendimento” che definisce, in maniera chiara, il contesto in cui gli attori sono discenti e non prestatori d’opera. Salvo, poi, ricorrere alla retorica concessione all’alunno con disabilità: “Gli puoi far fare una lezione insieme, per spirito di appartenenza, ma poi ha bisogno di un aiuto specifico”.

Una posizione che esautora completamente gli obiettivi formativi della nostra scuola (dal 1971 con la Legge 118 in poi) incentrati sul concetto della disabilità, come risorsa e non come limite o problema. In una visione, giustappunto, che esalta l’integrazione delle competenze e non le deprime, le stesse figure dei docenti specialisti e dei docenti curricolari devono concorrere insieme a trasformare, per renderlo inclusivo, lo spazio-aula in ambiente di interazione educativa. Non è per niente trascurabile questo aspetto, in quanto la presenza di ogni alunno, a prescindere dal proprio stile e ritmo di apprendimento, richiede un ambiente formativo inclusivo e non spazi di separazione tra coloro che ce la fanno e chi fa più fatica a farcela.

Basta comprendere la valenza pedagogica della scuola delle opportunità educative e del diritto allo studio; una scuola che sappia andare al di là dell’ideologia della normalità come “media” entro cui sopra stanno i più bravi e sotto gli incapaci. Su queste osservazioni critiche dovrebbe umilmente riflettere il generale Vannacci per comprendere che la pedagogia e i destinatari degli interventi educativi hanno poco o nulla a che vedere con le brigate, le divisioni e i corpi d’armata.

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