Ci sono tante cose che si ripetono il 1° maggio: il caffè al bar Elena in piazza Vittorio a Torino prima di mettersi in marcia, le manovre con la camionetta e la disposizione dello spezzone, il soundcheck, i canti, gli abbracci, le bandiere. Ogni tanto c’è qualche tensione, altre volte per fortuna no. Un anno c’è il sole, l’anno dopo la pioggia.

Ultimamente un altro fatto si ripete: un decreto del Governo Meloni che si chiama “lavoro”, ma quando va male è contro i lavoratori, quando va meglio è pura propaganda. È il caso di quest’anno, il secondo di fila: un “bonus tredicesime” e una micro-mancia alle famiglie monogenitoriali a basso reddito con un figlio a carico.

La politica dei bonus, degli sconti, delle “tessere” non l’ha certo inventata Giorgia Meloni. Spoiler: non è stato nemmeno Matteo Renzi. In ogni caso sappiamo da dove comincia e dove va a finire: nessuna intenzione di redistribuire dal capitale ai salari, misure caricate sulla fiscalità generale, disinvestimento nei servizi e nel welfare universale, nessuna politica produttiva.

Eppure, nonostante l’abolizione del reddito di cittadinanza, ci sono ancora padroni che si lamentano di non trovare manodopera capace di rimboccarsi le maniche come si deve e ringraziare per 4 euro l’ora.

Il 1° maggio, però, è e dovrebbe essere sempre, anche per chi fa opposizione, un’occasione per tentare pensieri lunghi: per pensare il lavoro non solo in termini di salario degno, ma di felicità. E di tempo, di integrazione con ciò che si desidera per la propria vita. Perché – per esempio – il fenomeno del big quit ha a che fare con la felicità e con una forma di consapevolezza esistenziale, che è al di qua e oggi – Marx mi fulmini – tanto importante quanto la coscienza di classe. Perché vita brevis, tempus fugit, e non vale certo la pena di cederla agli sfruttatori. Perciò, c’è chi quel tempo e quella vita cerca di riprendersela e portarsela via.

Il problema è che c’è chi invece – e sono troppi – questa scelta proprio non la può fare. E quella vita la consuma arrangiando straordinari non riconosciuti su salari da fame, o secondi lavori su contratti a tempo variabile ma carico invariato.

Poi c’è chi quella vita finisce per perderla travolto da un treno mentre ripara un binario, o annegato nel crollo di una centrale idroelettrica. Dopo Suviana, il Segretario della Cgil di Bologna si è sfogato: “Non si sa quali sono le aziende di cui erano dipendenti i lavoratori esterni. Poi scopriamo che uno è un pensionato di 73 anni, una partita Iva: che mondo del lavoro è?”.

Esatto, che mondo del lavoro è? Che mondo è quello dei subappalti a cascata, delle finte cooperative, del caporalato medievale o digitale, dei 4 euro l’ora, delle sprangate ai delegati sindacali, dei capannoni della moda in cui si lavora senza dispositivi di sicurezza? Quello in cui a crescere sono solo i contratti precari o poveri (meno 33mila contratti a tempo indeterminato, più 21mila a termine, più 26mila autonomi)? Quello in cui i contratti collettivi scadono e non vengono rinnovati per anni, in cui i macellatori sono inquadrati come agricoltori e gli agricoltori come facchini? In cui più della metà delle donne non lavorano, in cui giovani medici specializzati fuggono dal nostro servizio sanitario per evitare condizioni indegne?

Sembrano domande retoriche e un po’ demagogiche, ma rispondere è una cosa seria. Perché no, non è un mondo crudele. Questa sarebbe una risposta metafisica, mentre noi facciamo politica. E invece sì, è un mondo ingiusto. E se c’è ingiustizia significa che per molti che la subiscono c’è sempre qualcuno che ne beneficia.

I ricchi devono piangere? Suvvia, non ce n’è alcun bisogno. A tutti spiace sempre un po’ quando arriva un conguaglio, ma raggiunta la maggiore età possiamo mantenere un certo contegno anche di fronte alle tasse. Non c’è bisogno di dire che sono bellissime, basta pagarle. Possibilmente là dove si fanno i profitti. Non c’è bisogno di scendere in piazza domani insieme ai lavoratori, basta pagarli. Almeno 9 euro. Non c’era bisogno di un “decreto lavoro”, sarebbero “bastati” il salario minimo e la parità di trattamento negli appalti.

Anzi no, non sarebbero bastati. Ma potevano essere un buon inizio. Ricominciamo ancora, allora. Ricominciamo dalla proposta di legge di iniziativa popolare sul salario minimo appena depositata alla Corte di Cassazione dalle opposizioni. Dalle firme che servono anche per i quattro referendum sul lavoro stabile, dignitoso, tutelato e sicuro, promossi dalla Cgil. In un giorno, qui in Piemonte, erano già 1200. Quindi avanti. Buon 1° maggio a tutti e tutte.

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