di Davide Trotta

La denuncia di Giorgia Meloni all’indirizzo del prof. Luciano Canfora pone al centro della riflessione anche il controverso rapporto tra intellettuali e potere, che nel corso della storia conosce alterne vicende, tra momenti di collaborazione e momenti di tensione. E non potrebbe essere diversamente, se è vero che l’intellettuale – termine forse troppo retorico oggi –, in quanto dotato di spirito critico, può e deve esercitarlo anche in maniera acuminata e sferzante nei confronti del potere, non fosse altro perché tutte le trombe non suonino all’unisono: evviva pertanto le note disarmoniche fuori dal coro.

Tuttavia se mettiamo sul piatto della bilancia il peso specifico dei colpi sferrati dal potere e quello dei colpi degli oppositori – molte volte più virulenti di quelli portati dalle opposizioni politiche – è innegabile che il piatto penda decisamente dalla parte del potere, che quindi potrebbe usare la stessa clemenza auspicabile in un adulto che riceva uno schiaffo da un bambino: non ci aspetteremmo che l’adulto ricambi con vieppiù veemenza. Eppure i detentori odierni del potere in Italia pare che godano nell’esercizio famelico della propria prerogativa: così però, più che mostrare forza, finiscono per tradire una certa insicurezza e anche un certo provincialismo, assimilabile più all’incazzatura di una comare di paese in rotta col vicino di casa che alla visione di insieme ampia ed equilibrata richiesta a degli statisti.

Se la proverbiale clemenza di Giulio Cesare elargita agli oppositori divenne segno di potere ormai consolidato, proprio questa durezza di Meloni rivela una percezione del proprio potere come precario e instabile, con buona pace di chi evoca il funesto Ventennio italiano. Del resto il cuore del dibattito pulsa attorno alla questione fascismo sì/fascismo no: e se una rondine non fa primavera, neppure una denuncia – o più, vista la recente familiarità dei politici con tale “strumento” – fa fascismo: se mai fa marcescenza del potere, talmente sclerotizzato da non avere altre armi che i cannoni di fronte alle zanzare.

A quanti non sarà capitato di essere stati “salutati” con un “ti denuncio” a seguito di un battibecco: lo fanno pure gli studenti a scuola verso i loro prof. Insomma, così fan tutti, con buona pace del “tu non sai chi sono io”, ora spodestato dal più cool “ti denuncio”. Pertanto tale questione sembra attenere più alla sfera individuale, evidentemente in profondo deficit di sicurezze.

Ma veniamo al peccato originale: “Meloni è neonazista nell’animo”, questa la sentenza incriminata del prof. Canfora. L’altro piatto della bilancia – dicevamo – è oggettivamente più debole, ma a maggior ragione una posizione di subalternità richiede un’ulteriore dose di avvedutezza, tanto più se si scomoda un aggettivo così roboante che, al netto della libertà d’espressione, farebbe perdere la tramontana a qualsiasi destinatario.

Se un intellettuale è abituato ad argomentare con acribia e dottrina le proprie posizioni, in questo caso invece il professore forse si è lasciato prendere un po’ la mano, forzando parole che non sono parse accompagnate da argomenti sufficientemente probanti o comunque tali da giustificare lo stigma affibbiato alla premier. D’altra parte il riferimento a Tocqueville per chiarire il senso di “nell’animo” è stato chiosa a margine arrivata in seconda battuta, necessaria a spiegare una finezza accessibile a un’élite.

E qui si apre una crepa più ampia sul muro del dissenso eretto dagli intellettuali, che a volte rivelano tutta la distanza tra sapere accademico e realtà politica, per contrastare la quale servono meno leziosità: non è un caso che le vere opposizioni ai vari governi susseguitisi nel corso degli anni si siano concentrate più presso la rara stampa libera che nelle stanze degli intellettuali, il cui uscio forse dovrebbe essere più chiuso all’autoreferenzialità e più aperto all’autocritica, se critica davvero dura ed efficace si vuol muovere al potere.

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