C’era bisogno di un manifesto per connotare il corpo dell’Islam in Italia? La risposta è sì. Lo sforzo lo ha fatto la teologa Francesca Bocca-Aldaqre, cofondatrice dell’istituto Islamico di Studi Avanzati, con il volume Manifesto dell’Islam italiano, edito da Mimesis, in uscita il 3 maggio. Un testo in cui si “cerca di affermare l’esistenza di una comunità che può appartenere alla cultura italiana, in cui la distinzione etno-culturale, anche se non cancellata, passa in secondo piano”.

Ma quanto siano labili i margini fra cultura e fede di appartenenza è un giudizio al quale ancora non si riesce a trovare risposta. L’importante, almeno per cominciare, sono le parole con cui ci approcciamo. Termini come: fatwa, salamelecco o islamico – sono le cose, non le persone – sono ormai recepiti come parole negative, svuotate del loro significato spirituale. L’apoteosi dell’assurdo, come ricorda bene l’autrice, la detiene l’insigne Pietro Citati. “I musulmani adorano un altro Dio” scrive laconico in Israele e l’Islam, Bompiani, dando forza a quell’equivoco linguistico che associa la parola Allah, traduzione araba di Dio, ad una divinità completamente differente. Mentre, scrive Bocca-Aldaqre, è ovvio che si tratti dello stesso Dio: anche i cristiani arabi usano la parola araba “Allah” rivolgendosi al Divino!

Ma quanto sia difficile riuscire a scardinare alcuni stereotipi lo ricordano le vite di alcuni musulmani italiani ormai caduti nel dimenticatoio. Come Leda Rafanelli, convertita all’Islam, anarchica, ammirata da Mussolini; Amedeo Guillet – comandante Diavolo -, alla guida di manipolo di soldati in Eritrea in guerra contro gli inglesi. Per non parlare di quei professori musulmani che, secondo quanto riferito dall’autrice, lavorando in università in Italia non dichiaravano la loro fede nell’Islam per paura di ripercussioni. Ma qual è oggi l’approccio? Secondo Bocca-Aldaqure: “La ricerca di somiglianze, anziché di differenze, può essere un processo che ostacola l’elaborazione di una identità perché zoppo. Discutendo del culto dei musulmani si citano Abramo, Gesù, Maria, ma mai il Profeta Muhammad”.

Eppure il sincretismo religioso, vedere ciò che c’è in comune, sembra essere la strada che in Medioriente viene percorsa in posti dove la riconciliazione interconfessionale è urgente. In aggiunta, sforzi verso il profeta Muhammad sono stati fatti anche dalla cristianità, basti pensare a padre Paolo Dall’Oglio, scomparso in Siria da troppo tempo, che in Innamorato dell’Islam, credente in Gesù, JacaBook, scriveva che l’unica via per una “accettazione completa del messaggio dell’Islam è quella di un discernimento teologico del cristianesimo per riconoscere il messaggio del profeta”.

Così, in attesa della teologia, il cristianesimo e l’Islam diventavano di carne. Questo monaco recitava il padre nostro con i musulmani e si recava nelle moschee. Forse la strada dei musulmani in Italia sarebbe quella di guardare e osservare i mutamenti nel mondo arabo? Come a ragione dice l’autrice, il pericolo in tutto questo discorso è di cadere nell’ideologia. Ma quando afferma che “nell’Islam non si può parlare di pensiero di destra o sinistra” e che fra le nuove generazioni “alcuni sceglieranno di stare a sinistra valorizzando idee di uguaglianza sociale, altri a destra per posizioni tradizionaliste” pare non fare i conti con realtà consolidate.

Almeno negli ultimi 30 anni abbiamo visto ex-musulmani, aspiranti tali, come Magdi Allam, schierarsi a destra in completa antitesi con l’Islam, ricoprendo il ruolo dei crociati di comodo. A sinistra, invece, si è osservato un grande equivoco: musulmani e musulmane, di orientamento tradizionalista e conservatore, candidati nelle liste di partiti apertamente solidali con le famiglie arcobaleno; per la legalizzazione della droga e per la laicità. Insomma, tutte questioni che sono l’opposto di un conservatore, uno che voterebbe un partito di ispirazione islamica, come al Nahda o… Democrazia cristiana!

Il primo errore sta a sinistra: usa i musulmani per testimoniare una cultura ideologica dell’apertura. Poi c’è lo sbaglio di questi musulmani che per opportunismo non ammettono il loro pensiero conservatore. Non è infatti un caso aver visto associazioni islamiche, pronte a rivendicare in alleanza con la sinistra la loro libertà di culto, manifestare in piazza con chi vuole la famiglia tradizionale – Adinolfi per tutti. In questo c’è la tendenza tradizionalista – il legame con il passato – che accomuna Islam e Cristianesimo, anche se per l’autrice non è così. In arabo è il richiamo verso la turath, l’eredità dell’epoca d’oro dell’Islam, un’epoca alla quale attingono tutte le correnti di questa religione.

Pur non condividendo a pieno alcune delle tesi di questo libro, esso rappresenta uno sforzo d’intelletto di una classe culturale musulmana italiana che ha bisogno di farsi sentire di più. Sono volumi come questo, con tutti i limiti che un manifesto contiene, a spingere il dibattito oltre il chiacchiericcio inutile. Aiutandoci a porre le domande giuste, partendo da: chi siamo?

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