“Il soggetto criminale è unico, la condotta di Arnaldo La Barbera prima e di Mario Bo poi, insieme agli altri imputati, agevolò la nuova consorteria nata dal patto tra Cosa nostra stragista e le istituzioni. Il depistaggio continua ancora adesso”. Sono le parole dell’avvocata Rosalba Di Gregorio, nel giorno delle arringhe delle parti civili nel processo di appello sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Gli imputati sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gli ex componenti del gruppo d’indagine, guidato da Arnaldo La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero costretto Vincenzo Scarantino e altri finti pentiti a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage in cui venne ucciso il giudice Paolo Borsellino. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto perché il fatto non costituisce reato.

I vertici di Roma – Come emerso nel corso del dibattimento, ricostruito anche dalla testimonianza di Gioacchino Genchi, La Barbera dopo essersi recato nella capitale per alcuni incontri istituzionali, avrebbe ricevuto l’input di chiudere le indagini, spingendo sul “pupo” Scarantino. “Da Roma arriva l’ordine di risolvere la fase esecutiva e non solo, con il verbo di Scarantino. Secondo quanto riferito da Genchi, i referenti romani che hanno impartito quest’ordine sono il prefetto Luigi Rossi, gli uomini del Nucleo centrale anticrimine, poi diventato Sco, oltre a Pansa (Alessandro, ndr), De Gennaro (Gianni) e Manganelli (Antonio)”, dice Di Gregorio, che difende Giuseppe La Mattina, Cosimo Vernengo e Gaetano Murana. L’avvocata chiama ripetutamente gli imputati “badanti”, termine usato dagli stessi agenti durante il processo di primo grado per descrivere il loro ruolo di supporto a Scarantino. “La nostra toga è stata profondamente offesa, e continua ad esserlo. I magistrati sono stati ‘distrattini’, diciamo che c’è stata una certa incuria per alcuni argomenti”, spiega Di Gregorio puntando il dito su chi ha istruito le indagini e i processi a Caltanissetta, prima che Gaspare Spatuzza sconfessasse Scarantino e gli altri pupi.

L’Agenda rossa e il telefono scomparso – Poi il riferimento ad altre figure istituzionali, mai imputate nel processo. “Elementi che ci portano alla presenza operativa di soggetti esterni sono molteplici: la scomparsa dell’agenda rossa non riguarda Cosa nostra ma una presenza istituzionale, come il lancio Ansa sulla scomparsa della 126, e la nota del Sisde dell’agosto ‘92, che contiene il canovaccio fatto recitare ai pentiti. Tutte presenze istituzionali”, aggiunge l’avvocata. “L’agenda grigia di Borsellino dopo il 23 maggio contiene annotazioni di incontri istituzionali con Parisi, Rossi, e poi De Gennaro, e ripetute con la Dia. Ho chiesto a Lucia (Borsellino) se il telefono del padre gli fosse stato restituito, lei mi ha detto no. Noi non sappiamo che fine ha fatto questo telefono. Non c’è un verbale o annotazione di servizio. Non sappiamo se ci sono stati neppure sviluppi sugli accessi sul suo computer, sequestrato dalla procura e portato a Caltanissetta. Non credo che Borsellino non scrivesse nulla sul pc”, dice Di Gregorio. Infine un passaggio sui tanti testimoni giunti in “soccorso” degli imputati. “La negazione, l’amnesia collettiva, queste menzogne vere e proprie, servono per difendere gli imputati, per i sopralluoghi, per i colloqui a Pianosa, per i fatti di San Bartolomeo – aggiunge Di Gregorio -. Le carte di Zerilli (Maurizio, ndr) apparse miracolosamente, a me non hanno convinto, apparizioni strane da strani archivi. Non è possibile vedere che spuntano carte che la Procura che non ha mai avuto”.

“Il Depistaggio continua” – “Il depistaggio dura anni, forse ancora oggi. Questa vicenda ci sta distruggendo quotidianamente. Sono stato definito depistatore, pur avendo subito il depistaggio”. È un fiume in piena l’avvocato Fabio Trizzino, legale difensore di Lucia Borsellino, che nel corso della sua arringa rivolge duri attacchi al pool guidato all’epoca da Gianni Tinebra. “Voglio dirlo ai magistrati di allora, Paolo Borsellino a parti invertite avrebbe consumato se stesso pur di raggiungere la verità come sapeva fare lui – dice Trizzino -. Colpa della superficialità di tutti i magistrati della procura allora retta da Tinebra, hanno ampiamente dimostrato di non essere stati all’altezza della funzione di coordinamento nei processi Borsellino uno e bis, abdicato la loro funzione di controllo sull’operato degli investigatori, lasciati liberi di scorrazzare nell’illegalità”. Un depistaggio investigativo e giudiziario che ha preso “in giro il popolo italiano”, secondo Trizzino non sarebbe stato “concepito dalla mente sanguinaria di Totò Riina”, e che “eliminando le condotte sotto forma di omissioni, dei pubblici ministeri” della procura nissena dell’epoca, “sarebbe venuto meno” perché “maldestro”.

Chi aveva paura di Falcone e Borsellino? – “Sull’agenda rossa voglio denunciare la negligenza della procura di Tinebra che non se ne è occupata, nonostante la famiglia e la moglie Agnese avesse dato degli spunti. Solo Rocco Liguori ha indagato”, aggiunge Trizzino. Il legale della figlia di Borsellino pone numerose riflessioni sotto forma di domande. “Chi aveva paura delle indagini che avrebbe fatto Falcone con la super procura? Non certo Riina, che aveva sempre avuto paura del giudice. Chi aveva paura delle indagini che avrebbe potuto fare Borsellino? A distanza di 32 anni, possibile che non abbiamo contezza dell’agenda di Falcone, non sappiamo il contenuto. Quante sono le annotazioni? Tutto fa pensare che Falcone rimandi al nido di vipere. I magistrati avevano un elemento fondamentale, la testimonianza di Borsellino a Casa Professa è un atto notorio, il 25 giugno 1992, il giudice disse di essere testimone privilegiato, ma non sarà mai interrogato”, aggiunge Trizzino. Un passaggio viene fatto anche sulle perquisizioni nelle ore successive alla strage di via d’Amelio. “Oltre alla scomparsa dell’agenda, cosa è avvenuto nell’ufficio di Borsellino? – chiede l’avvocato- Non sappiamo cosa sia successo tra le 18 e le 23 di quel giorno. Cosa hanno prelevato dallo studio del giudice? Quali fascicoli c’erano sulla scrivania? E se tra questi ci fossero stati quelli sugli appalti?”. Infine la chiusura sul superpoliziotto, definito uno degli strumenti del depistaggio. “La Barbera diventa questore di Palermo, stessa città del gruppo investigativo guidato da Bo, suo fedele collaboratore. Ecco perché ci hanno nascosto le intercettazioni e le telefonate di Scarantino, altrimenti tutto il castello di sabbia sarebbe caduto miseramente”.

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