Il genocidio di Gaza non poteva fungere da spartiacque migliore per capire chi siamo, chi sta vicino a noi e chi, invece, non ha nulla a che vedere con noi. Ricordate le prese in giro dei negazionisti della pandemia e la famosa uscita “non ce n’è Covvidd”? Quelli che ora dicono “non c’è genocidio” sono negazionisti ben più scollegati dalla realtà e da quelle stesse prove empiriche e fatti tanto decantati (a ragione) durante la pandemia. Non c’è dubbio che la parola “genocidio” sia spesso oggetto di controversie politiche e la sua corretta definizione e applicazione sia fonte di difficoltà tecniche e semantiche, ma il caso di Gaza lascia poco spazio ai dubbi.

Oltre alle conclusioni di un report della International Court of Justice che contiene alcune prove riguardanti “l’intenzionalità” e definisce “plausibili” le accuse di “atti di genocidio” di Israele nelle operazioni militari a Gaza, alcuni numeri fanno chiarezza:

– in soli 4 mesi di bombardamenti sono stati uccisi più bambini a Gaza che in tutte le altre guerre nel resto del mondo degli ultimi 4 anni;
– in soli 6 mesi, il 2% dei bambini di Gaza ha perso la vita o è stato ferito e oltre 1,000 bambini hanno subito l’amputazione di una o due gambe;
– oltre 50,000 bambini soffrono di grave malnutrizione e 28 bambini sono morti di fame a causa del totale embargo di Israele;
– quasi tutti gli ospedali sono stati bombardati (26 sono stati letteralmente distrutti o sono fuori uso, 17 funzionano parzialmente);
– in totale, Israele ha causato la morte di 34,012 persone e 76,833 sono state ferite;
– oltre 1 milione di persone soffrono di insicurezza alimentare “catastrofica”;
– circa 1,7 milioni di persone sono state sfollate – ma diversamente da altri genocidi questi individui non hanno neppure la possibilità di fuggire in altri paesi.

Questi dati sono impressionanti. Per mettere le cose in prospettiva, basta ricordare che numerosi paesi Europei, il Canada, la Gran Bretagna e l’attuale presidente degli Usa hanno definito l’uccisione di circa 7000 civili e lo sfollamento di 1 milione di persone in Myanmar un plausibile caso di “genocidio”. A Gaza invece che cos’è? Quanti bambini palestinesi dovranno morire per convincere i negazionisti che quello che sta accadendo a Gaza è uno scenario plausibile con un genocidio?

Quest’applicazione della definizione di genocidio a targhe alterne nel mondo occidentale va attribuita a una lunga lista di cause. Nessuna può spiegare completamente perché il West non prova compassione verso i civili del Rest. L’empatia selettiva deriva in parte dall’essere stati esposti a una serie di norme sociali e visioni del mondo fortemente influenzate da etnocentrismo e nazionalismo. Riguarda tutti, non solo i paesi occidentali. Tuttavia, questo tipo di semi-cecità morale è parzialmente comprensibile in individui che hanno avuto scarse possibilità di informarsi e un basso livello di istruzione. Nel caso di accademici e intellettuali è imperdonabile.

Le razionalizzazioni finalizzate a minimizzare la tragicità di ciò che accade a Gaza non mancano. Uno dei cavalli di battaglia dei negazionisti è affermare che i dati su Gaza sono sballati. Come delineato in un articolo uscito sulla rivista Lancet, tale argomentazione non regge. I dati pubblicati dal United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (UNOCHA) non sono certo precisi (infatti ampiamente sottostimati), ma sicuramente utilii e adeguati a uno scenario così tragico. Gli intellettuali che, di fronte a un genocidio, invece di chiedere a gran voce il cessate il fuoco, focalizzano la propria attenzione sull’imprecisione dei dati di mortalità ricordano quei ricercatori che studiano così tanto di così poco che finiscono per sapere tutto del nulla. Questi ricercatori conducono ricerche precise, ma inutili. O precisamente inutili.

La civiltà occidentale tende spesso a dipingersi come portatrice di alti valori come la democrazia e la libertà di pensiero, ma i negazionisti del genocidio o coloro che ne applicano la definizione a targhe alterne non fanno altro che rigurgitare la propaganda che i loro media offrono 24 ore al giorno 7 giorni su 7. Evitare di usare parole come “genocidio” e “pulizia etnica” nel caso di Gaza è il risultato di un processo di conformismo e obbedienza gerarchica.

Questo è emerso da una nota interna contenente alcune direttive del New York Times ai suoi giornalisti. Come ammesso dagli stessi redattori del Nyt, evitare di usare la parola genocidio a Gaza è una scelta editoriale finalizzata a favorire Israele e penalizzare la Palestina. Secondo un’analisi di Intercept, riguardante oltre 1000 articoli apparsi su New York Times, Washington Post e Los Angeles Times, termini carichi emotivamente come “massacro” e “orribile” sono riservati quasi esclusivamente agli israeliani uccisi dai palestinesi e non il contrario. Anche la CNN ha dovuto affrontare reazioni negative da parte del suo stesso personale a causa di politiche editoriali che, secondo i resoconti di sei membri dello staff e più di una dozzina di promemoria interni, hanno portato alla censura delle prospettive palestinesi.

Andrew Marr, ex giornalista della BBC, durante un’intervista a Noam Chomsky, autore del best seller Manufacturing Consent, ha chiesto: “come fa a sapere che mi sto auto-censurando? Come fa a sapere che i giornalisti si auto-censurano? Chomsky: “Non sto dicendo che si sta autocensurando. Sono sicuro che crede a tutto ciò che dice. Ma quello che sto dicendo è che se credesse in qualcosa di diverso non sarebbe seduto dove è seduto.”

C’è un termine che l’autore vivente più citato nella storia utilizza per definire non solo i giornalisti, ma anche gli intellettuali e accademici che sposano in modo acritico la propaganda mediatica occidentale: “gregge di menti indipendenti”.

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