di Flavio Barbaro e Annalisa Muratore

La candidatura di Ilaria Salis apre una questione sempre più presente all’interno, non solo della comunicazione elettorale dei vari partiti, ma anche tra gli stessi elettori: a che cosa servono le elezioni europee? Il loro significato in realtà è vitale, perché è in sede europea che si prendono le decisioni più importanti, e proprio per questo la domanda è fondamentale.

Che le europee non siano considerate un “grande traguardo” dagli elettori è confermato dall’affluenza: nel 2019 il 54,50% degli elettori italiani ha votato alle elezioni europee. Non dobbiamo leggere questo dato solamente dalla prospettiva dei giovani che si allontanano dalla politica, che comunque costituiscono un peso decisamente grave all’interno sia dei numeri che della democrazia, ma anche dal punto di vista di quell’elettore su due che non solo non sa praticamente a cosa servano queste elezioni, ma che anche nel caso lo sappia, non dà comunque fiducia ai candidati.

Ci si aspetterebbe, quantomeno, che queste elezioni siano tenute in grande considerazione dai partiti. Eppure questo non sembra essere il caso per alcuni di loro: Meloni le considera un modo per “verificare il consenso degli italiani” (come riferisce Niccolò Carratelli su La Stampa) a due anni dalle elezioni politiche; altri partiti invece stanno assumendo una strategia, a tratti ancora più problematica.

Qui si apre la questione di Ilaria Salis, insieme ad altre candidature annunciate sparse per tutte le liste: Roberto Vannacci con la Lega (o così spera Salvini), Gino Cecchettin con il Pd (poi smentita), Daniela Di Maggio, la madre di Giovanbattista Cutolo, il ragazzo ucciso a Napoli dopo una lite (mai confermata). Candidare personaggi mediaticamente forti non deve essere la strategia dominante per combattere l’astensionismo, dapprima perché non esiste un quorum in questo senso. Queste elezioni saranno sempre valide, anche se l’affluenza scenderà: ciò che però dovrà preoccuparci sarà il nostro grado di democrazia e la nostra capacità di risolvere problemi a livello europeo. È proprio di questo che si tratta: affidare a queste persone, rese note dalle loro affermazioni capaci di attrarre consensi e critiche, o dalle loro storie, che facilmente le elevano a simboli di questioni ampie e complesse, la responsabilità delle sfide che come Unione Europea siamo chiamati ad affrontare, come la lotta alla crisi climatica, i conflitti, il problema della difesa, e così via.

Se poi riconosciamo come problemi principali la disinformazione e il disinteresse (dato da molteplici motivazioni) si capisce presto che nessun nome altisonante può risolvere problemi così gravi con la semplice candidatura. Nel caso in cui invece fosse una scelta soltanto strategica, questa, nella possibilità di creare sicuramente interesse – anche se ciò che serve è l’affluenza – rischia di generare l’allontanamento da parte di chi forse non riesce a vedere la competenza di certe candidature, ma che sicuramente ne vede i nomi scritti in prima pagina.

In questo calderone di strategie politiche, sintomi dei problemi che stiamo attraversando come democrazia, resta poco chiaro quale sia la responsabilità dei partiti europeisti, i quali presentandosi come un argine alla possibilità che le destre sovraniste prendano il sopravvento in tutta Europa, e non mancando di sottolineare come le istituzioni comunitarie debbano essere rafforzate, scelgono di usare le elezioni di giugno come un mezzo per raggiungere un fine. Un fine nobilissimo, quello di far uscire Ilaria Salis dal carcere disumano in cui si trova, ma che dovrebbe essere scopo della diplomazia.

Le europee non possono essere lo strumento con cui si risolvono i problemi fra Stati, anche quando i leader di questi sono legati ideologicamente, né per altri tipi di fine se non quello della rappresentanza e della partecipazione ad un progetto comunitario che il nostro futuro non può trascendere: a questo servono le candidature.

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