Un nuovo capitolo delle tensioni in Medio Oriente, altri morti, ma questa volta nessuna rivendicazione. Non è ancora chiaro quale sia la mano che ha provocato le esplosioni nella base militare delle milizie filo-Iran a sud di Baghdad, in Iraq, ma nelle ore immediatamente successive si sono susseguite accuse, smentite e scarichi di responsabilità. Il risultato è che gli elementi in mano agli analisti rimangono ancora troppo pochi per muovere accuse dirette, anche se il campo delle opzioni va restringendosi col passare delle ore.

Cosa si sa: è un “attacco”?
Definire “un attacco” quello che ha colpito la base di Calso, gestita dalle Forze di Mobilitazione Popolare (Pmf) fedeli a Teheran, è già un passo in avanti rispetto alle poche certezze acquisite in queste ore. Ciò che è chiaro, al momento, è che un’area del complesso militare è stata interessata da una serie di esplosioni che hanno distrutto alcuni mezzi militari, provocando almeno una vittima e otto feriti.

Il Comando Centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha immediatamente escluso qualsiasi coinvolgimento nell’accaduto. Dopo l’ultima offensiva israeliana contro l’Iran che ha colpito una base a Esfahan, gli Stati Uniti avevano invece precisato di essere stati informati ma di non aver condiviso la mossa di Tel Aviv. Washington ha come primo obiettivo quello di non farsi coinvolgere direttamente nello scontro, limitando così i rischi di esplosione di un conflitto regionale allargato. Il secondo punto nell’agenda dell’amministrazione Biden è quello di rimanere fedele all’alleato di Tel Aviv, cercando di influenzarne le decisioni e condividendo le scelte al fine di evitare pericolosi passi in avanti del governo Netanyahu, come la decisione di attaccare il consolato iraniano a Damasco, che rischierebbero di superare la linea rossa tracciata dagli ayatollah iraniani.

Come spesso accade dopo operazioni in territorio straniero, nessun commento è arrivato, nel momento in cui si scrive, dalla leadership israeliana, anche se fonti dello ‘Stato ebraico‘ negano che la responsabilità delle esplosioni sia da attribuire a Tel Aviv.

Le possibilità sul tavolo
Detto questo, sono ancora molte le ipotesi che non possono essere escluse. Si va dall’attacco effettivamente condotto da Israele, all’aggiunta del coinvolgimento americano, dall’errore commesso dalle stesse forze filo-iraniane alla false flag targata Iran, fino a un’attentato di cellule estremiste legate ad al-Qaeda o allo Stato Islamico, nemiche dei gruppi sciiti nell’area che le hanno combattute e continuano a combatterle nella guerra iniziata a metà 2014 contro il Califfato.

La tesi dell’attacco israeliano con l’aiuto americano
Alcuni osservatori, in attesa di ottenere maggiori elementi, citano fonti riservate secondo le quali le esplosioni sarebbero il frutto di un attacco aereo israeliano partito dalla base americana Burj 22, in territorio giordano ma al confine con Siria e Iraq. Si tratta dello stesso complesso militare che il 28 gennaio è stato oggetto di un attacco che ha ucciso tre soldati Usa e successivamente rivendicato dal raggruppamento di forze sciite dell’Islamic Resistance in Iraq, vicine, tra gli altri, proprio alle Forze di Mobilitazione Popolare.

Per analizzare questa versione si deve partire dalle dichiarazioni, nelle ore successive all’accaduto, del governo iracheno: secondo Baghdad, nessun drone o velivolo straniero si trovava nello spazio aereo iracheno al momento delle esplosioni. Tesi che scagionerebbe Israele e l’alleato americano, a meno che non si sia trattato di un lancio di missili diretto verso la base irachena. Anche per questo le dichiarazioni dell’esecutivo di Baghdad sembrano avventate, dato che Israele dispone della versione Adir, tecnologicamente molto avanzata, degli F35, aerei abilissimi a eludere i radar. Il loro limite, che è anche il motivo per cui è sempre stato complicato pensare a un’offensiva dei caccia israeliani sull’Iran, è che la loro autonomia si limita a 2.200 chilometri e avrebbero così bisogno di rifornimento in volo per poter tornare alla base. Necessità che verrebbe elusa nel caso in cui, come sostengono gli analisti citati, il decollo dei mezzi fosse avvenuto dalla base americana in Giordania, distante appena 600 chilometri dal luogo delle esplosioni e che quindi permetterebbe ai caccia di Israele di portare a termine la propria missione percorrendo indicativamente 1.200 chilometri.

Questa ipotesi sembra convincere anche le stesse milizie sciite. Le Forze di Mobilitazione Popolari hanno fatto sapere che la loro base è stata in effetti oggetto di un raid aereo, versione che contrasta quindi con quella fornita dal governo. E indicativa delle posizioni dei gruppi filo-Iran nel Paese è anche la risposta della Resistenza Islamica poche ore dopo l’attacco: in un video diffuso sui social, i miliziani hanno annunciato di aver lanciato alcuni droni contro “un obiettivo vitale” a Eilat, nel sud di Israele. “L’attacco è la risposta alla violazione della sovranità irachena da parte del nemico sionista e al suo attacco contro le Forze di Mobilitazione Popolare irachene (Pmf)”, hanno poi spiegato.

La posizione del premier al-Sudani
Se la versione dell’attacco israeliano venisse confermata, resterebbe da capire perché il governo guidato dal primo ministro Mohammed Shia’ al-Sudani si è affrettato a comunicare che nessun drone o aereo straniero era presente nei cieli iracheni al momento del raid. Il primo ministro iracheno, rappresentante del blocco sciita nel Paese che guarda maggiormente a Teheran come riferimento, è considerato anche molto vicino proprio alle Forze di Mobilitazione Popolare. Queste dichiarazioni, però, segnano una distanza tra le parti difficile da interpretare, dato che anche alle prossime elezioni del 2025 il politico avrà bisogno del maggior consenso possibile all’interno della compagine politica sciita per formare una coalizione di governo. Una risposta può essere cercata in un editoriale a sua firma pubblicato da Foreign Affairs l’11 aprile, pochi giorni prima del suo recente viaggio a Washington nel corso del quale ha incontrato il presidente Joe Biden. Nell’articolo, intitolato L’Iraq ha bisogno di una nuova partnership con gli Stati Uniti, il premier ritiene fondamentale modificare e allargare la partnership tra Baghdad e Washington, non limitandola alla sola cooperazione nella lotta allo Stato Islamico. In un passaggio si precisa ad esempio che “negli ultimi anni sono sorte occasionalmente tensioni tra i nostri due Paesi a causa del conflitto con i gruppi armati presenti in Iraq negli ultimi due decenni. Questi gruppi sono nati dalle complesse circostanze che l’Iraq ha incontrato mentre affrontava il terrorismo. Ma poco a poco, con il ripristino della sicurezza e della stabilità, la necessità della presenza di armi fuori dal controllo dello Stato e delle sue istituzioni scomparirà. Stiamo lavorando di concerto verso questo scopo”. Il riferimento sembra essere proprio alle varie milizie attive nel Paese, comprese quelle fedeli a Teheran.

Questo progetto rischia di destabilizzare la leadership di al-Sudani che, non a caso, nell’articolo aggiunge che “l’Iraq ha davanti a sé una strada lunga e impegnativa. Il mio governo è consapevole della sua posizione delicata e del delicato equilibrio che deve mantenere tra gli Stati Uniti e i gruppi che talvolta entrano in conflitto diretto con le forze americane. Ma la nostra visione di questa situazione è chiara, rifiutiamo gli attacchi agli interessi americani in Iraq o nei Paesi vicini. Allo stesso tempo, abbiamo bisogno di tempo per gestire le complessità interne e raggiungere intese politiche con i vari partiti”. Così, il tentativo di disinnescare qualsiasi escalation che coinvolga gruppi iracheni impegnati contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, in questo momento, potrebbe essere al centro degli interessi dell’esecutivo di Baghdad. Nell’articolo, la posizione viene infatti chiarita: “Accogliamo con favore l’opportunità di collaborare con gli Stati Uniti per disinnescare le crisi e ridurre le tensioni in Medio Oriente. Tuttavia, intendiamo evitare di rimanere coinvolti nel conflitto tra due dei nostri partner, l’Iran e gli Stati Uniti”.

Perché attaccare le milizie filo-Iran potrebbe essere la “risposta saggia” promessa da Netanyahu
Dopo il lancio di droni e missili di Teheran in direzione dello ‘Stato ebraico’, il primo ministro di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu, aveva promesso una nuova risposta israeliana che sarebbe stata “saggia e non di pancia“. Tra le opzioni sul tavolo c’era anche quella di attacchi alle basi e ai depositi delle milizie filo-Iran che, per diversi motivi, era quella considerata meno rischiosa nell’ottica di un possibile allargamento del conflitto. Innanzitutto, raid di Israele su postazioni dei gruppi sciiti in Iraq e Siria, compresi anche distaccamenti dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, sono molto frequenti anche in tempo di minore tensione. Le operazioni non hanno mai scatenato reazioni militari di Teheran, sempre restia ad associarsi formalmente, seppur questo non sia un segreto, alle milizie che controlla fuori dai suoi confini. Per questo un eventuale attacco compiuto di Israele sarebbe parte di una risposta “saggia” e ponderata: fino a oggi questo tipo di azioni non ha mai provocato una risposta della Repubblica Islamica che, non a caso, non ha nemmeno condannato ciò che successo in Iraq.

Il fatto, poi, che a essere colpite siano state milizie filo-Iran in Iraq spiegherebbe l’eventuale uso della base militare americana: quelle stesse milizie si erano rese responsabili dell’attacco al complesso in Giordania e per questo gli Stati Uniti, esattamente come avevano annunciato nei giorni scorsi, potrebbero aver preso parte alla scelta del target e all’organizzazione dell’offensiva. In questo modo, Israele avrebbe portato a termine la seconda fase della sua nuova risposta a Teheran, dopo l’attacco su Esfahan, l’Iran non sarebbe stato costretto a un’ulteriore attacco militare, visti i precedenti, e gli Stati Uniti sarebbero stati accontentati da Tel Aviv nella loro richiesta di evitare azioni che possano scatenare un conflitto tra potenze regionali in Medio Oriente.

Twitter: @GianniRosini

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