“Questa è un’area militare, non si può entrare”. Una strada stretta e tortuosa percorre il perimetro dell’ex base utilizzata fino ai primi anni Novanta in tempo di Guerra Fredda, quando anche il sistema dittatoriale albanese è collassato seguendo l’esempio di quanto accaduto in Russia e Jugoslavia. È lì dentro, oltre un cancello sigillato e controllato a vista da zelanti guardiani, che sorgerà una copia del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria. Non siamo alla periferia ovest di Roma, ma nell’Albania settentrionale, a una manciata di chilometri dal confine col Montenegro, in una zona distante da tutto e tutti. Occhio non vede, cuore non duole. È la metà di aprile e secondo la volontà espressa dal nostro governo il centro di raccolta dei migranti tra i villaggi di Gjader e Kakariq dovrebbe entrare in funzione il 20 maggio prossimo anche se secondo documenti della Difesa citati da Repubblica ormai è chiaro che tutto sarà rinviato a novembre.

Il sopralluogo de ilfattoquotidiano.it effettivamente ha evidenziato che di passi avanti significativi non ce ne sono. La conferma dei timori di un ritardo abbastanza importante arriva sia dalle immagini registrate dai droni che dalle testimonianze raccolte. Un giornalista di Tirana che si è occupato del tema preferisce non esporsi. Racconta: “La data l’abbiamo appresa dai vostri media . Se aspettiamo le informazioni dal nostro governo stiamo freschi. Il via libera all’accordo con l’Italia per i migranti è stato votato in Parlamento assieme a un altro provvedimento di poco conto: tutto in quarto d’ora. Il tempo per la lettura delle proposte di legge, la votazione e via. Altro non è possibile saperlo, i tempi, ma neppure le altre informazioni vitali per l’Albania: i migranti potranno uscire dalla struttura, resteranno in Albania o saranno subito espulsi, chi pagherà le nostre spese, quanto durerà tutto ciò?”.

Ci sono poi le questioni tecniche, a partire dalla capienza massima della struttura: il cronista albanese fornisce dati in suo possesso che non collimano con le intenzioni di Palazzo Chigi. “Voi scrivete di 3mila posti, a me ne risultano meno. Due strutture all’interno della base, usate dai militari, saranno trasformate per l’accoglienza. Una, la più grande, ospiterà chi ha ricevuto l’ok alla richiesta d’asilo per una capienza di 880 posti; nella più piccola andranno i rimpatriabili e ci saranno 150 posti. Visto l’andamento dei lavori, presto verranno eretti dei moduli abitativi, sia per gli stranieri che per i servizi”. Un’area dovrà essere riservata alla struttura carceraria per i migranti che dovessero commettere reati dentro il centro o su cui gravano precedenti. Come scritto nero su bianco in una circolare del ministero della Giustizia il mini carcere potrà tenere fino a 20 detenuti e la sicurezza sarà garantita da 45 operatori in missione, guardie specializzate in arrivo dall’Italia, spinti da uno stipendio niente male: 176 euro al giorno per i dirigenti, 157 a funzionari di carriera e “appena” 130 euro alle altre qualifiche; fatti due conti solo per questo servizio ogni anno le casse italiane dovranno versare qualcosa come 2,5 milioni di euro.

Per arrivare al Cpr di Gjader bisogna imboccare una strada secondaria rispetto alla statale che collega Lezhe (Alessio), capoluogo della prefettura, e Scutari. Passato lo stabilimento della Colacem e una cava si entra nell’abitato praticamente deserto di Kakariq fino a una stazione di servizio in disuso. Lì è situato uno dei due ingressi, costellato dai tradizionali bunker di cemento armato a forma di funghetto costruiti sotto la dittatura comunista. A parte quattro mezzi da lavoro, ruspe ed escavatori (di un paio di aziende italiane) che hanno dissodato un pezzo di terra e un container per gli operai, poco altro è stato fatto. Una stradina che costeggia il profilo della montagna conduce al cuore della base, oscurata alla vista; dal lato opposto c’è l’altro ingresso, in fondo a una pista di rullaggio parallela a quella di decollo e atterraggio degli aerei da guerra tenuti dentro l’hangar naturale della montagna.

Quei tempi sono andati. Se adesso si vede poco del sito vero e proprio, a lavori terminati tutto verrà ulteriormente oscurato: “Una fonte mi ha riferito che una delle opere da realizzare è un muro di cinta alto sette metri che sigillerà tutta l’area – aggiunge il giornalista di Tirana -. Il costo dell’opera sarà a carico vostro, come tutto il pacchetto di interventi del resto. Un’opzione era l’uso dei droni, temo che a breve sarà impossibile utilizzarli quando il campo sarà pieno di gente, italiani, albanesi, richiedenti asilo da mezzo mondo”.

Diverso il discorso per l’hotspot al porto di Shengjin, dove le motovedette italiane cariche di naufraghi attraccheranno di volta in volta. Il cartellone ufficiale del cantiere ha dato un senso al progetto, ma qui i lavori sono davvero poca cosa rispetto al Cpr di Gjader. Il piccolo scalo peschereccio, piuttosto depresso, riprenderà vita grazie all’accordo Italia-Albania. I lavoratori di ditte italiane stanno allestendo lo spazio dove sorgerà una struttura temporanea per l’accoglienza, in accordo con i dettami della società di ingegneria Akkad di Roma, titolare della parte progettuale. La base è pronta: “L’idea è di realizzare un sito prefabbricato dove ospitare gli stranieri solo per le prime pratiche – spiega a ilfatto.it un addetto del porto albanese -. Qui nel piazzale saranno caricati a bordo di bus e furgoni e portati a Gjader”. In linea d’aria le due località sarebbero a 7-8 chilometri di distanza, ma di mezzo c’è una montagna invalicabile. L’alternativa è percorrere i 20 chilometri lungo una strada stretta e trafficatissima, specie d’estate, attraverso il centro di Lezhe dove si circola sempre a passo d’uomo. Le strade, appunto, il vero cruccio del Paese delle Aquile.

Le autorità albanesi stanno correndo contro il tempo per regalare un collegamento viario il più rapido possibile alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel giorno in cui le strutture per i richiedenti asilo saranno inaugurate. Dall’aeroporto internazionale Nena Tereza di Tirana a Lezhe (45 chilometri) nella migliore delle ipotesi serve un’ora e mezzo. Per tre quarti del percorso si viaggia su una corsia per senso di marcia e le code in vari momenti della giornata possono diventare allarmanti. I lavori per realizzare la superstrada vanno avanti senza sosta, si lavora anche di domenica. Non basterà.

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