La notte tra sabato e domenica l’Iran ha lanciato contro lo Stato d’Israele il primo attacco diretto della sua storia: finora Teheran aveva sempre preferito colpire tramite altre forze, come gli Hezbollah, i miliziani equipaggiati e addestrati dai Pasdaran nei Paesi dell’area e gli Houthi, anch’essi milizie sciite operanti in Yemen. Stavolta si è assistito a qualcosa di completamente diverso, ma a dir poco inconcludente dal punto di vista militare e privo delle capacità di raggiungere reali obiettivi. E questo lo sapeva, per prima, proprio la Repubblica Islamica, che è a tutti gli effetti una potenza regionale dotata di forze armate numerose ed efficienti, con armamenti moderni, soprattutto dal punto di vista delle capacità missilistiche avendo nel tempo sviluppato vettori (IRBM, Intermediate-Range Ballistic Missile) con gittate superiori ai 5.000 chilometri, in grado quindi di colpire qualunque nazione del Medio Oriente. Inoltre, già da anni, l’Iran sta arricchendo l’uranio per poter disporre anche dell’arma atomica e potersi così sedere “al tavolo dei grandi” della Terra. Ormai non manca molto, presto i Pasdaran potranno equipaggiare i loro missili con testate nucleari, facendo così salire ulteriormente la tensione in una regione dove gli scontri politici e militari sono praticamente all’ordine del giorno.

Torniamo quindi all’attacco dello scorso weekend. I vertici iraniani, viste le competenze in ambito militare, sapevano benissimo che non avrebbero ottenuto alcun risultato sostanziale nel lanciare un attacco missilistico contro Israele che dispone, unico paese al mondo, di una difesa superficie-aria contro ogni minaccia attualmente esistente. Inoltre, lo ‘Stato ebraico‘ non era certo solo: davanti alle sue coste naviga un carrier strike group della U.S. Navy, con una portaerei a propulsione nucleare (dotata di circa una centinaio di velivoli), un incrociatore (classe Ticonderoga) e due cacciatorpediniere (classe Burke) equipaggiati con l’Aegis, in grado di colpire, grazie al radar di scoperta SPY-6 (portata fino a 400 chilometri) e all’utilizzo dei sistemi d’arma superficie-aria SM-3 e SM-6, qualunque aeromobile o missile (a corto e medio raggio) fino a una distanza di oltre 1.000 chilometri. In aggiunta a questo dispositivo, sia la RAF britannica che la Marine Nationale francese hanno fornito un sostanzioso contributo facendo alzare in volo i caccia Typhoon e Rafale, i quali hanno intercettato un buon numero di APR iraniani.

È altresì vero che Israele si assicura uno scudo difensivo non solo grazie ai suoi sistemi d’arma e a quelli degli alleati occidentali, ma anche grazie ai legami stretti con altri attori della Regione, in particolare con i Paesi sunniti che vedono nell’Iran una minaccia alla stabilità dell’area. Grazie agli Accordi di Abramo del 2020, Israele ha potuto costruire una rete di informazioni e collaborazioni con nazioni, come ad esempio gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein, che solo pochi anni fa sarebbe stato assurdo solo immaginare.

D’altro canto Teheran ha fatto quanto promesso: rispondere all’attacco israeliano del primo aprile. Anzi, ha fatto vedere all’opinione pubblica mondiale che ha agito nel rispetto del diritto internazionale, ovvero applicando l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite che riconosce, nel caso di attacco armato contro uno Stato membro dell’Onu, il diritto di autotutela individuale o collettiva. Ecco quindi che già domenica mattina i vertici politici iraniani si ritenevano soddisfatti e invitavano al contempo Israele a non effettuare eventuali rappresaglie. Pena, stavolta, una risposta iraniana ben più massiccia.

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