di Enrico Lanzetta

Ore 12,00 del 20 marzo sono convocato, insieme a mia moglie, nel “maniero” di una nota Scuola media statale di Napoli. La coordinatrice della classe III B deve darci comunicazioni urgenti che riguardano nostro figlio, frequentante appunto la classe di cui è coordinatrice.

La comunicazione riguarda l’esclusione di nostro figlio dal viaggio di istruzione, dovuta al superamento della soglia massima del numero di note disciplinari, soglia stabilita dal Consiglio di Classe. La coordinatrice ci comunica che i ragazzi esclusi sono 14 (più di metà dell’intera classe), in realtà successivamente verremo a sapere che gli studenti esclusi sono solo 3. Il tema centrale è che, durante questo dialogo, due termini stridono vigorosamente nella mia mente: questo istituto esempio di “inclusione” decide per l'”esclusione” dal viaggio di istruzione. Che, forse, per il corpo docente della scuola, i termini “inclusione” ed “esclusione” siano sinonimi?

Chiediamo di colloquiare anche con la dirigente scolastica per capire qualcosa in più. La premessa non è confortante: la Preside ci ricorda che i docenti non sono retribuiti per accompagnare i ragazzi durante le visite di istruzione e per vigilare su di essi (non commento… forse ci aveva scambiato per funzionari del Ministero). Faccio notare: avete valutato le possibili conseguenze? Come si sentiranno i ragazzi esclusi? Come “vivranno” questa esclusione? Cosa accadrà, nelle dinamiche di classe, quando, al ritorno, ci saranno ragazzi che potranno condividere le proprie esperienze, le proprie emozioni, ed altri che non potranno condividere nulla del viaggio-distruzione? (sì, volutamente scritto proprio così).

Nessuna risposta. O meglio, unica risposta è che tale decisione non è punitiva, ma educativa (Bingo!). E poi, nostra domanda chiave: se la scuola aveva identificato la presenza di alcuni ragazzi “difficili” al punto da essere costretta ad escluderli dal viaggio-distruzione, quali iniziative ha intrapreso in tre anni? Veniamo incalzati da: “Tantissime iniziative”. “Bene, ce ne dica una…”. A questo punto la reazione della Preside è perentoria: “Non sono qui per rispondere ad un interrogatorio!”.

Eh no, signora Preside. Ho il diritto di fare tutte le domande per essere informato perché la scuola pubblica vive delle tasse di noi contribuenti ed è responsabile della crescita educativa dei nostri figli. Per dirla all’inglese, se non sono uno shareholder della scuola, sono quanto meno uno stakeholder e pretendo che la Scuola dia conto del suo operato, di quello che fa e, soprattutto, di quello che non fa (o che non è in grado di fare).

Come ultimo argomento faccio notare che nostro figlio, da quando questa decisione ha cominciato ad aleggiare nella sua classe, ha cominciato a manifestare repulsione verso la scuola e che quindi quello che Preside e Consiglio di classe vogliono far passare come una vittoria della scuola, in realtà si è trasformata in una cocente sconfitta. Se anche un solo studente proverà avversione per la scuola, questa non avrà assolto al suo compito principale.

Il commiato poi è da brividi: “Visto che vostro figlio è prossimo a lasciare questa scuola, vi auguro maggiore fortuna con il prossimo corpo docente”. Preside, questa volta mi trova d’accordo: in Italia, vedersi garantiti i diritti, come quello dell’inclusione, è un vero colpo di fortuna. Poi mia moglie ed io siam dovuti andar via frettolosamente perché girava voce che il ponte levatoio sarebbe stato, di lì a poco, sollevato e avremmo rischiato di attraversare a nuoto il fossato del “maniero” per tornare a casa… appunto… un “tuffo” nel Medioevo.

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