La poesia di Alcmane (VII Secolo a. C.) è indissolubilmente legata a Sparta e ne mette in luce aspetti forse poco noti o, per meglio dire, eclissati dall’immagine più vulgata (e stereotipata) di una città votata alle attività belliche, ferrigna e austera – nei versi di Alcmane la natura, il simposio e il canto sono espressioni di una comunità raffinata e incline a coltivare il gusto per il bello e per le arti; pur pervenutaci in uno stato molto frammentario l’opera di Alcmane s’impone come una tra le più alte dell’antica poesia greca, in particolare nell’ambito della lirica corale.

Il primo testo che propongo è infatti un “partenio” trascritto in un papiro ritrovato a Saqqara in Egitto nel 1855 e conservato al Louvre – i parteni erano testi in versi musicati per gruppi di fanciulle che li cantavano e danzavano in occasione di feste religiose e di riti d’iniziazione delle stesse fanciulle alla vita sociale della città. Non ho tradotto l’intero partenio giuntoci lacunoso in molte sue parti, ma soltanto il passaggio centrale che va immaginato come un’azione dialogata tra due cori che esalta la bellezza di Agesìcora (“nome parlante” in quanto designa colei che guida il coro) e quella di Àgido; le interpretazioni del partenio non sono affatto univoche, ma si tratta probabilmente di una cerimonia in onore di divinità locali spartane durante la quale si celebrano legami anche amorosi tra le fanciulle (il termine “cugina” designa il legame nato all’interno del gruppo), necessario preludio alla vita adulta. Non sconcertino i riferimenti alle diverse razze di cavalli citate nel partenio, essendo quest’animale, negli ambienti aristocratici entro cui i parteni avevano luogo, simbolo di eleganza e di bellezza.

Propongo poi la traduzione di quattro frammenti (i titoli sono soltanto indicativi del tema) che, lampi improvvisi e bellissimi, evocano una cerimonia in onore di Dioniso e un notturno, mentre gli ultimi due potrebbero essere considerati in qualche modo autobiografici sia perché nel penultimo Alcmane rappresenta sé stesso anziano ma mai sazio d’intonare canti insieme con le fanciulle del coro, sia perché nell’ultimo connette chiaramente la propria arte con quella delle pernici, affermando anzi che l’ha appresa direttamente da quelle creature che sono in strettissima connessione con la natura.

A.D.

***

(Partenio del Louvre)

Canto
la luce di Àgido: la vedo
come fosse il sole (lei
ne testimonia
lo splendore). Ma
Agesìcora, magnifica corifea,
m’impedisce
la lode e il biasimo.
È lei che appare eccelsa tra le altre,
come stesse
in mezzo al prato un cavallo
gagliardo, vincitore di gare, dai sonanti zoccoli,
sogni alati.

Non vedi? è un corsiero
enetico e la criniera
di mia cugina
Agesìcora fiorisce
come oro puro
(d’argento il viso) –
ma perché dire ancora parole?
L’una è Agesìcora,
l’altra è Àgido, figura
di cavallo colasseo a confronto con uno iveno.
Esse appaiono Pleiadi-colombe
a noi che rechiamo il velo alla Dea
attraverso la notte d’ambrosia,
pari a Sirio, aeree, contendono
in bellezza.
Né competono con loro
la quantità di porpora che ci adorna,
né i braccialetti in forma di serpente screziato
tutto oro, né la mitria
di Lidia (ornamenti
delle giovani dallo sguardo di viola)
né le chiome di Nannò
né la divina Areta
né Tilaci né Clesitera –
né, andando da Enesìmbrota, le potresti dire:
“Astafi sia mia
e mi guardi Fililla
e Damareta e l’amabile Iantemi” –
è per Agesìcora che mi struggo.

Agesìcora dalle belle caviglie
non è qui, ma
stretta ad Àgido loda le nostre
offerte.
Accettate le loro preghiere,
o dèi, (agli dèi appartengono
fine ed esito)
e dirò: “o corifea,
sono una fanciulla e blatero invano
come civetta dalla trave –
soprattutto chiedo il favore della Dea,
lei che ci guarì dagli affanni”.
Per merito di Agesìcora le fanciulle
raggiungono la pace desiderata.

(Baccante)

Spesso sulle cime dei monti
durante la luminosa festa per gli dèi
reggendo una coppa d’oro (grande recipiente
come quello dei pastori)
con le mani mungendo latte di leonessa
hai lavorato una forma di cacio grande,
luminosa, d’argento.

(Notturno)

Dormono le cime dei monti e i precipizi,
le balze e le forre,
le stirpi striscianti che nutre la nera terra,
le fiere montane e la stirpe delle api
e i cetacei sul fondo del mare color del vino,
dormono le stirpi degli uccelli dalle lunghe ali…

(Il cerilo)

Non più, o fanciulle dalle voci di miele
che intonate canti sacri, mi reggono
le ginocchia – ah, fossi un cerilo
che accarezza il fiore delle onde con le alcioni,
intrepido il cuore, sacro uccello colore del mare!

(Il canto delle pernici)

Le parole e il canto trovò
Alcmane intessendo
articolate voci di pernici.

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