Università è un sostantivo di genere femminile che si declina soprattutto al maschile. Lo certificano gli studi sugli atenei italiani, dove le donne sono le più preparate ai concorsi, ma le meno veloci a chiedere l’abilitazione scientifica nazionale. Le prime tra i laureati, eppure quelle che quasi mai ottengono i contratti migliori. Hanno il 16% di probabilità in meno degli uomini di diventare docenti ordinarie, ruolo che – a parità di condizioni di partenza – raggiungono in media sette anni dopo i colleghi. Su di loro ricade anche la maggior parte del lavoro d’ufficio, quello amministrativo e didattico, definito di housework o housekeeping accademico. E non perché siano più portate per questo tipo di incarichi ma perché gli uomini li rifiutano.

È così che sono le meno rappresentate nelle governance delle università, dove a prendere le decisioni sono per il 70% gli uomini, in linea con la media europea. I fattori che incidono di più sul divario sono principalmente tre: la difficoltà a raggiungere posizioni da associato o da ordinario, cioè quelle da strutturate, la scarsa rappresentanza femminile nei ruoli decisionali e la mancanza di normative ad hoc sulla maternità, che pesa su standard di performance tarati al maschile. Questi aspetti sono stati fotografati da due studi recenti: Men first, di Marianna Filandri, Silvia Pasqua e Anna Uboldi; Genere e accademia, di Manuela Naldini e Barbara Poggio, che oltre a raccogliere i dati hanno pubblicato le testimonianze di accademiche acquisite in forma anonima.

E i racconti si concentrano sulle difficoltà nel fare carriera e affermare il proprio percorso professionale. Ma non solo. Il mondo accademico è stato infatti anche travolto dal caso scoppiato a Torino nelle scorse settimane, quando un professore è stato sospeso per abusi su studentesse e un altro ha ricevuto un provvedimenot disciplinare. “L’università è una struttura di genere”, dice Naldini. “Lo vediamo dalle molestie, dalle violenze di genere, che per esempio nella mia università (di Torino, ndr) sono arrivate agli onori della cronaca. È successo nonostante ci siano una consigliera di fiducia a cui ci si può rivolgere in caso di molestie e violenze, un centro di studi e di ricerche sulle donne, un centro antiviolenza direttamente nel campus e una consulenza psicologica a cui rivolgersi. Siamo nel 2024, uno si chiede come è possibile che tutto questo continui a succedere. Succede perché il genere continua ad avere un impatto a diversi livelli incluso questo, quello di esercitare un dominio o un potere“. Dopo il caso di Torino, l’Unione degli universitari ha lanciato un appello contro gli abusi negli atenei e raccolto più di 300 segnalazioni. “Non a caso la Commissione Europea ha stabilito che ogni università, se vuole ricevere finanziamenti per i progetti di ricerca Horizon 2020, deve dotarsi di un cosiddetto Gender equality plan“.

Carriere al palo – “Abbiamo calcolato che chi diventa ordinario sette anni dopo l’abilitazione perde un reddito lordo di circa 400mila euro nella vita lavorativa. Questo ha conseguenze anche sulla sua pensione”, spiega a ilfattoquotidiano.it Marianna Filandri, tra le autrici dell’indagine sulla velocità delle carriere. Mancati incassi che riguardano il 40% delle ordinarie. Il divario di retribuzione non si riscontra nello stipendio di base, stabilito da contratti pubblici uguali per tutti, ma negli scatti professionali di cui le accademiche non hanno beneficiato.

Accanto a questo c’è il problema che gli studi internazionali chiamano leaky pipeline, letteralmente “della condotta difettosa”, perché somiglia a un tubo che perde acqua. Il numero di donne che abbandona la carriera scientifica supera quello degli uomini. Eppure, le immatricolate negli atenei italiani sono quasi pari ai colleghi e questo equilibrio rimane fino al dottorato. Il divario si crea con l’aumentare dell’anzianità e degli incarichi e culmina con uno sbilanciamento del 76% di ordinari contro il 24% di ordinarie. Questo avviene, in parte, perché le donne rinunciano prima. Secondo gli studi condotti da Poggio e Naldini le cause di rinuncia sono principalmente due. La prima è l’autoselezione.

“Sono le donne stesse che hanno preferenze diverse – spiega Naldini – per esempio non vogliono impegnarsi in una carriera così incerta e lunga, oppure sperimentano situazioni particolarmente spiacevoli o stressanti e decidono di abbandonare”. Lo conferma a ilfattoquotidiano.it Claudia, fisica, che ha rinunciato alle aspirazioni accademiche a 33 anni: “Non riuscivo più a pianificare la mia vita, avevo bisogno di più stabilità economica e di gestire meglio i miei tempi – dice – così ho cercato un lavoro in azienda”. Prima di mollare ha svolto tre assegni postdoc nelle aree Stem, dove l’85% degli ordinari è uomo.

La seconda questione ha a che fare con le discriminazioni di genere. “Sono gli unconscious bias – spiega Naldini – i pregiudizi inconsci che le donne sviluppano nei loro stessi confronti, per senso di inadeguatezza, o che le commissioni di concorso fanno prevalere quando si valuta chi è più adatto per una posizione”. A volte le due cose coesistono. Come è capitato a Sara, economista di 31 anni che racconta a ilfattoquotidiano.it: “Non me la sentivo di continuare dopo il dottorato, non mi vedevo abbastanza preparata e c’erano colleghi uomini che potevano offrire più certezze di me”.

Le governance al maschile – Oggi gli atenei pubblici presentano una gestione manageriale che prevede due grandi divisioni dei ruoli. Da un lato il Senato accademico, che si occupa di pianificare insegnamenti, attività di ricerca, servizi per gli studenti. Dall’altro il Consiglio di amministrazione, a cui spetta la gestione finanziaria e amministrativa dell’Università. La riforma Gelmini, varata nel 2010 dal governo Berlusconi, ha ribadito la necessità di rispettare la parità di genere nella nomina dei componenti del cda. Attualmente però le donne occupano solo il 30% delle sedie ai tavoli in cui si decide. Questo ha un impatto sulle stesse possibilità di introdurre nuove tutele, perché un modello di rappresentanza così distribuito tende a riprodurre le stesse scelte stereotipate.

Ad allontanare le ricercatrici dai ruoli di potere è anche il maggior carico di “lavoro accademico di cura” che grava sulle loro spalle. In inglese viene definito academic housework o housekeeping e consiste nelle attività didattiche, di tutoraggio o di mera organizzazione di basso profilo. Queste mansioni sono svolte in misura maggiore da donne, che tendono però così più facilmente a rimanere indietro sulla ricerca rispetto ai colleghi, anche perché si tratta di attività poco valorizzate e riconosciute. “Vengo pagata per la ricerca ma faccio anche esami a 100 studenti per sessione e questo tempo è gratis – racconta Roberta, assegnista biologa di 37 anni, a ilfattoquotidiano.it – Sul momento non te ne rendi conto, ma stai facendo volontariato a scapito della tua carriera”.

La maternità e la performance – Secondo gli studi di Naldini e Poggio, “la maternità sembra spiegare la maggior parte dello sbilanciamento nelle carriere tra uomini e donne”. Questo fattore incide anche quando non c’è. Il peso si avverte di più nelle ricercatrici che hanno fra i 30 e i 40 anni, quando a causa del precariato si rimanda la scelta di diventare genitori anche di un decennio. “Il lavoro è tanto e fare un figlio adesso significherebbe rinunciare alla carriera – racconta a ilfattoquotidiano.it Ilenia, assegnista in Filosofia di 38 anni – Ci penserò quando avrò un posto più stabile”. È ormai tardi invece per Paola, diventata associata in Lettere alla soglia dei 45. “I figli per me non erano una priorità. Li avrei fatti se avessi avuto prima il posto da strutturata, ma è andata così e va bene”. In questo modo la maternità smette di essere una scelta.

Pesa l’assenza di politiche ad hoc sulla figura dei ricercatori. Se in un team una persona si assenta per cinque mesi, magari un anno, il suo ruolo non viene rimpiazzato da nessuno. Il danno si traduce in mancate pubblicazioni dell’intero gruppo di lavoro, che finiscono per incidere anche sulla carriera della ricercatrice che si è assentata. “Quando sono andata in maternità ho visto i miei colleghi fare i salti mortali per tappare i buchi per mesi – racconta Flavia, linguista, che ha avuto un figlio quando era ricercatrice e un altro da associata – e per me è stato faticoso perché se avessi smesso di pubblicare la mia carriera non sarebbe andata avanti”. Anche nei casi in cui esiste, il welfare accademico privilegia comunque chi ha già una posizione. Lo si nota anche dagli asili nido aziendali. Solo poche università in Italia ce li hanno ma le graduatorie danno priorità a chi è strutturato, penalizzando le neomamme a inizio carriera, che invece avrebbero più bisogno di quell’aiuto.

Questi aspetti vanno di pari passo con la cultura della performance introdotta con l’assetto manageriale degli atenei. “Il gioco publish or perish – cruciale nelle prime fasi della carriera accademica – può tradursi in uno svantaggio per le giovani madri che non sempre riescono a mantenere i livelli richiesti per una eventuale promozione”, certifica lo studio Genere e accademia. Una dinamica di fondo che mette al centro competizione e produttività, innescando ritmi tossici di lavoro e penalizzando chiunque non sia al massimo della forma. Ma che colpisce soprattutto le donne. “L’over work femminile è maggiore perché spesso alle ricercatrici si chiede di più – spiega Barbara Poggio – senza contare che la divisione di genere del lavoro all’interno delle coppie è in molti casi ancora asimmetrica, il che può avere conseguenze rilevanti rispetto alla possibilità di mantenere gli stessi ritmi, soprattutto se e quando ci sono figli piccoli, come si è visto chiaramente durante la pandemia”.

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