“Oggi non è una giornata di augurio ma di lotta”: inizia così l’intervento di Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Unione degli Universitari, che alla Camera dei Deputati ha presentato il rapporto “La tua voce conta”. Contiene i primi risultati di una indagine avviata l’11 febbraio, dopo le notizie di molestia all’università di Torino, che ha raccolto risposte e testimonianze di 1.500 iscritti nelle università italiane, attuali e non. Circa 300 le segnalazioni raccolte in un’indagine che continuerà a essere attiva.

Le segnalazioni. Dalle risposte e dai dati emerge un quadro di sostanziale senso di insicurezza negli atenei e nei laboratori, tra molestie vere e proprie – presenti e passate – ma soprattutto verbali. Docenti universitari che suggeriscono alle studentesse di fare le escort, altri che dicono loro di non mettersi il camice durante il tirocinio perché non ce n’è bisogno visto che “stanno bene” anche senza o che commentano le loro posizioni. “Nella nostra indagine – si legge nel rapporto – abbiamo scelto di porre una domanda aperta qualora ci fossero state delle persone che sentissero di poterci raccontare la propria esperienza personalmente vissuta. Le segnalazioni che ci sono arrivate risultano essere tutte estremamente gravi sia per tipo di molestia/violenza subita, che per autori della stessa”. Riguardano soprattutto le figure dei docenti, dei compagni di corso, del personale tecnico amministrativo, degli addetti alla sicurezza dell’ateneo o dei tutor di dottorato. E condividono tutti lo stesso risultato: la sensazione di disagio e paura generata nella persona abusata dentro un contesto formativo. “Eventi legati allo squilibrio di potere” spiega in conferenza stampa Giorgia Fattinnanzi della Cgil nazionale.

Le testimonianze. “Con quel visino può fare la escort, ci pensi. Guadagnerebbe anche bene” riporta una delle testimonianze. “Il prof […] mi fa i complimenti dicendomi “si vede che sei brava a tenere in mano i cazz*, quanti ne hai presi, sembri esperta”. Rispondo che è fuori luogo, ribatte dicendomi che sarebbe stato più opportuno parlarne a pranzo e mi invita a pranzare con lui. Rifiuto e lui sottolinea “guarda che pago io”. E ancora: “Tirocinio in reparto. Mi piego per firmare il foglio firme appeso in bacheca. Passa uno dei medici tutor che inizia a commentare volgarmente il mio fisico con apprezzamenti non richiesti e allusioni sul volermi vedere piegata altrove”. Non mancano casi di abuso anche sul versante fisico oltre che verbale, tra i docenti e non: “Sono stata più volte toccata dal mio relatore di tesi durante le correzioni del testo”. Oppure: “Una ragazza in un’aula occupata conosce un ragazzo che subito fuori dall’ateneo la prende per il collo, la sbatte al muro e cerca di baciarla, lei completamente nel panico e lui scomparso dall’ateneo”. “Un uomo appartenente al personale dell’università ha allungato le mani sul mio sedere (più di una volta) durante un giro dell’università”. “Un ragazzo appartenente al personale della ditta di pulizie ha molestato fisicamente una conoscente, chiudendola in una stanza isolata e tentando di immobilizzarla e palpeggiarla”. Anche i colleghi: “[…] Ero riuscita a cacciarlo via (per fortuna mia eravamo in uno spazio aperto con persone), ma da una iniziale situazione di tranquillità mi ero ritrovata assolutamente a disagio nel luogo in cui studio”. E ancora: “Ero nel parco dell’università e due ragazzi hanno cominciato a fischiarmi e a seguirmi, per fortuna sono riuscita a raggiungere i miei colleghi in fretta”. Emerge poi che, sebbene in minor misura, le molestie fisiche o verbali colpiscano anche i ragazzi: “Una professoressa che insegna ad infermieristica da spesso delle pacche sul di dietro agli studenti maschi durante i tirocini”.

Difficoltà a denunciare. E chi denuncia si trova spesso di fronte a un muro. “Varie ragazze hanno denunciato diverse molestie avvenute all’interno dello spazio universitario perpetrate da professori, sia verbali sia fisiche – spiega il rapporto – ma , nonostante siano state fatte arrivare in consiglio accademico sono state ignorate […] umiliando le vittime e chiedendo a quest’ultime di presenziare da sole con il carnefice e il direttore per poterne discutere, mettendo anche in una posizione scomoda e di disagio la vittima”. E infatti, il 22,4% di chi ha risposto all’indagine sostiene che il clima presente all’interno dell’università non mette le soggettività che hanno vissuto una molestia o violenza nelle condizioni di denunciare. Tra le cause, la paura delle ripercussioni sulla propria carriera, il giudizio da parte dei compagni di corso, la consapevolezza diffusa che la persona abusante non riceverà alcuna conseguenza, la consapevolezza che il fatto verrà sminuito e celato. “Inutile dire che non sono stata mai in grado di reagire, era il professore coordinatore del corso da cui dipendeva la mia laurea”. “Dai piani alti è stato detto ‘l’università non lo sospenderà, al massimo verrà spostato in un altro corso di laurea’”. “Purtroppo, nessuna ragazza è disposta a parlare, per paura di ritorsioni, visto che è un docente molto affermato in ambito accademico“. “Oggi fatico a entrarvi in università e soprattutto nel mio dipartimento […] quindi sì ci sono casi di molestie ma non si può dire niente perché se no si deve cambiare ateneo una volta che uno lo dichiara”. “Riteniamo essenziale sottolineare come una situazione simile evidentemente vada ad inficiare anche sul percorso accademico – oltre che sul benessere psicologico – delle soggettività che vivono episodi simili”, spiega l’Udu.

Sensazione di sicurezza. Partendo da qui, il lato statistico: il 47,4% pensa che il territorio in cui studia non sia per niente o abbastanza attrezzato a ricevere e gestire segnalazioni di violenza o molestia, mentre il 23,5% non sa rispondere. “Il fatto che quasi la metà del campione in esame non ritenga ci siano servizi sufficientemente adeguati nel territorio ci pone degli interrogativi sulla condizione odierna dei centri antiviolenza nel nostro territorio nazionale – dice Udu – . Questo ce lo dimostrano gli stessi dati Istat-Cnr: in Italia sono, infatti, presenti solo 338 centri e servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza; si tratta di 1,2 centri/servizi per ogni 100mila donne. Si tratta evidentemente di numeri irrisori per svolgere un lavoro idoneo a livello nazionale”. Riportando, invece, il focus sulle università, si nota come per il 20,5% i le università del nostro Paese non siano spazi sicuri (si tratta delle persone che in una scala da 0 a 10 hanno indicato un punteggio di sicurezza percepita tra 0 e 5). E infatti il 34,5% ha sentito parlare di casi di molestia o violenza all’interno degli spazi universitari.

I luoghi. Alla richiesta di quali siano i luoghi meno sicuri interni all’ateneo, vengono segnalati: studi dei docenti (37%), luoghi di tirocinio (34,7%), studentati (32%), aule dove si frequentano le lezioni (17,4%) e biblioteche (12,4%). Sono stati inoltre segnalati altri luoghi (17,4%) come aule studio, spazi esterni all’ateneo, bar, bagni e così via. “Coerentemente – si legge – le figure maggiormente individuate come quelle più inclini a perpetuare molestie e violenze sono proprio i docenti per il 48%, i compagni di corso per il 47%, i compagni di studentato per il 32% ed il personale tecnico amministrativo per il 20%.

Anche a scuola. Camilla Velotta è la rappresentante della Rete degli Studenti Medi. “Questa indagine ci permette di fare riflessioni importanti. Il tema della sicurezza percepita nei nostri spazi è cruciale – dice – . Questi dati non ci sconvolgono, già nei banchi di scuola conosciamo queste dinamiche di potere e ci sono pochi sistemi di tutela. Alle superiori ci scontriamo con gli stessi problemi. C’è difficoltà nel denunciare e nel difendersi, da mesi chiediamo al ministro dell’Istruzione Valditara di introdurre l’educazione sessuale, affettiva e al consenso sia per docenti che per gli studenti. Serve una prevenzione mirata. Ma anche sportelli antiviolenza e ampliamento del servizio offerto dagli sportelli di assistenza psicologica. Bisogna incrementare il rapporto tra tutti questi spazi”.

Dal passato. Tra le risposte, ci sono anche testimonianze di chi ha frequentato l’università in passato e che mostrano come ci sia bisogno di accelerare. “Le mie risposte si riferiscono agli anni 1986-88 – dice una testimonianza – quando io frequentavo reparto di Medicina come tirocinante per compilare la tesi. L’allora aiuto-primario mi faceva pressioni per ottenere prestazioni sessuali. Tutto l’ambiente, conoscendo il personaggio, era sicuro che io mi fossi concessa solo perché vedevano il suo interesse. Una volta laureata, decisi di uscire dalla Clinica, non fare domanda di specialità, non avrei retto altri 4 anni di stress e se non l’avessi accontentato non mi avrebbe permesso di imparare nulla. Scelsi di sacrificare i miei ideali. Cambiai strada. Senza dire nulla a nessuno! Non erano i tempi del “Me too”. Ora è quel tempo, ma tutto sembra ancora molto irrisolto.

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