Alla vigilia delle elezioni di giugno 2024, il direttore di Fanpage Francesco Cancellato firma un’inchiesta sui partiti della Destra europea, intitolata Nel continente nero (Rizzoli, 320 pagine, 17,5 euro). Attraverso interviste a colleghi stranieri e confronti con esperti, Cancellato ricostruisce l’ascesa delle formazioni di Destra nei singoli Stati, mettendo in luce i binari comuni su cui si muovono, dai finanziamenti transnazionali alle radici nei regimi dittatoriali, dal negazionismo climatico all’islamofobia. “Un processo di avanzamento che è prima culturale che politico e che potrebbe mettere a rischio l’equilibrio europeo”. L’inchiesta inizia con il racconto della prima esperienza dell’autore come elettore, proprio in occasione delle Europee, nel 1999. Ecco un estratto dall’introduzione del libro, che riassume quello che Cancellato chiama “lo scivolamento a destra” degli ultimi 25 anni.

Dal 1999 in cui la destra in Europa, di fatto, non esisteva o quasi, al 2024, vigilia di elezioni europee come allora. Mentre sto scrivendo, l’ultimo sondaggio disponibile, pubblicato il 30 dicembre 2023 dal portale Europe Elects, dice che il prossimo 9 giugno popolari e socialisti insieme non arriveranno nemmeno al 45 per cento dei seggi complessivi dell’Europarlamento.

Mentre le due grandi famiglie della destra europea, quella di Identity & Democracy (Id) che comprende il Rassemblement National di Marine Le Pen, la Lega di Matteo Salvini e Alternative für Deutschland, e quella degli European Conservatives e Reformists (Ecr), che ospita tra gli altri Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia, gli spagnoli di Vox e i polacchi del PiS, è complessivamente stimata al 25 per cento circa.

Volessimo tagliarla a fette spessissime, potremmo dire che nel giro di venticinque anni, due elettori europei su dieci si sono spostati dal centro e dalla sinistra verso partiti che un quarto di secolo fa avremmo definito di estrema destra. Talmente estrema che allora, in molti Paesi, non faceva nemmeno parte dell’offerta politica esistente. Prima che alziate anche solo un dito, tocca fare ammenda: non è andata esattamente così. Nel 1999 l’Unione Europea era molto diversa da quella che conosciamo ora. Ne faceva parte il Regno Unito che ora non c’è più, e non ne facevano parte i Paesi dell’Est Europa, che ora ci sono. Quando parliamo dell’Europa del 1999 e di quella del 2024 parliamo di due continenti diversi, in altre parole. La sostanza, tuttavia, cambia relativamente: in questi venticinque anni la destra è cresciuta ovunque. Ovunque si è radicalizzata. E quasi ovunque, a dispetto della sua radicalizzazione, è stata accolta nel consesso delle forze politiche legittimate a governare, con cui dialogare e costruire alleanze.

Le date cerchiate in rosso sul calendario sono quelle tra il 6 e il 9 giugno 2024. La vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche italiane del 25 settembre 2022 e il quasi contemporaneo scandalo Qatargate, che ha travolto alcuni esponenti del Partito dei Socialisti e Democratici europei, hanno autorizzato molti commentatori a pensare che un’ulteriore avanzata delle destre e un crollo dei socialisti avrebbero aperto la strada a un’inedita e storica alleanza tra i popolari e la destra di Ecr. I frequenti incontri all’inizio dell’anno successivo tra i capi dei due partiti, Manfred Weber per i popolari e Giorgia Meloni per i conservatori, hanno alimentato questa ipotesi. Ipotesi, peraltro, che è stata più volte rilanciata da Matteo Salvini e da alcuni esponenti delle destre di Id, con un sillogismo che ha un suo fondo logico: se l’alleanza tra partiti popolari e partiti di destra è realtà in molti Paesi europei, Italia in primis, da ormai trent’anni, perché non dovrebbe essere così anche a Bruxelles? Lo diciamo subito: difficilmente accadrà. Può essere, co me ci hanno raccontato molti degli interlocutori ascoltati per scrivere questo libro, che Meloni e i suoi alleati decidano di votare per il commissario europeo proposto dai popolari, così come già accadde per l’elezione della maltese Roberta Metsola a presidente dell’Europarlamento, per avere più potere negoziale nella trattativa per i commissari europei. Allo stesso modo, va ricordato che il gioco politico, tra Bruxelles e Strasburgo, segue logiche differenti rispetto a quelle degli Stati nazionali. Ci sono tre istituzioni – Commissione, Parlamento e Consiglio, il cosiddetto «trilogo» – che devono trovare un accordo. Ci sono organi eletti come il Parlamento, organi nominati come la Commissione e organi cui partecipano semplicemente i capi di Stato e di governo come il Consiglio. Ci sono decisioni prese a maggioranza, come accade in Parlamento, e altre che vengono prese all’unanimità, come accade in Consiglio. Ridurre la politica europea a un gioco in cui chi vince le elezioni governa è quantomeno semplicistico, insomma.

Attenzione, però: questo non vuol dire che un’apertura dei popolari alle destre conservatrici e nazionaliste non sia una notizia. Al contrario. In primo luogo, sarebbe la legittimazione ultima che queste forze otterrebbero, una sorta di lasciapassare universale che aprirebbe loro qualunque porta e che distruggerebbe in un sol colpo ogni veto nei loro confronti, nei rispettivi Stati nazionali. In secondo luogo, tale accordo potrebbe cambiare l’agenda politica dell’Unione Europea in modo radicale. Pensiamo, per esempio, a materie come la gestione delle migrazioni e la difesa dei confini, o come quella relativa alle politiche per abbattere le emis sioni di gas climalteranti in atmosfera. Infine, qualunque accordo tra popolari e conservatori cambierebbe radicalmente il progetto di costruzione dell’Unione Europea. Se l’alleanza tra popolari e socialisti si è sempre fondata sulla comune visione di un’Europa federale, un eventuale accordo tra popolari e conservatori aprirebbe le porte a una costruzione del tutto differente. Quella che, in estrema sintesi, viene definita Europa delle Nazioni. Un’Unione Europea, in altre parole, in cui gli Stati si mettono d’accordo solo su alcune grandi questioni, mentre fanno quel che vogliono su tutto il resto, che sia l’etichettatura dei cibi, le prese della corrente elettrica o dei caricabatterie, o il rispetto dello stato di diritto o dei diritti sessuali e riproduttivi delle persone.

Questo libro, però, non vuole preconizzare né il risultato di un’elezione prossima ventura né tantomeno il destino dell’Europa. Questo libro è il racconto di uno scivolamento a destra che è già avvenuto, lungo molteplici direttrici. Di una battaglia culturale, prima ancora che politica, che ha già avuto luogo, e che la destra ha già vinto, o perlomeno sta già vincendo. Ed è curioso che questa consapevolezza sia maturata, almeno per me, in una stagione politica, quella tra la vittoria di Meloni in Italia e le prossime europee, in cui la destra ha perso più elezioni di quante ne abbia vinte. Soprattutto in Spagna e Polonia, il cui esito ha premiato chi alle destre si è opposto, a dispetto di ogni pronostico. Mai come in questo periodo, tuttavia, i risultati elettorali rischiano di ingannare lo sguardo. E di portare a sottovalutare derive e processi già in atto da anni, che stanno progressivamente arrivando a maturazione in tutti i pezzi di quel puzzle chiamato Europa, da nord a sud, da est a ovest.

Per capire e raccontare quelle derive ho scelto sette Paesi, ciascuno dei quali a suo modo esemplificativo di una delle derive in atto. Ognuna delle quali è stata innesco dell’emergere di una forza di destra che ha visto crescere in maniera significativa i propri consensi. Sono stato nella Francia che ha visto andare in pezzi il suo multiculturalismo tra le rivolte nelle banlieue e gli attentati di matrice islamista, e in cui l’emergere del Front National di Jean-Marie e Marine Le Pen ha destrutturato completamente il quadro politico. Sono stato nella Spagna di un’identità nazionale messa in crisi dal riemergere della questione catalana, che ha fatto a sua volta da propellente alla nascita di un partito neofranchista come Vox. Sono stato in Svezia, dove la crisi dei profughi del 2015 ha trasformato quella che era definita come una superpotenza umanitaria in un Paese che ha aperto le porte della maggioranza di governo, seppur con l’appoggio esterno, a una delle forze politiche più xenofobe d’Europa. Sono stato in Ungheria, per raccontare la deriva illiberale e il progressivo controllo sui media operato dal governo guidato da Viktor Orbán. Sono stato in Polonia, ad assistere alla sfida tra le destre confessionali e chi vuole difendere i propri diritti sessuali e riproduttivi. E sono stato in Germania, teatro della prossima battaglia, quella sulle politiche per combattere il cambiamento climatico. In Italia, infine, ci sono tor- nato per raccontare l’impatto della crisi russo-ucraina e le ingerenze russe in Europa, ripercorrendo l’ascesa e la caduta della Lega di Matteo Salvini. La seconda volta, in un Paese in uscita dalla lunga stagione della pandemia di Covid-19, dalla quale è emersa la stella di Giorgia Meloni.

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