La Francia contro la Germania. La Spagna contro Colombia e Brasile sì, ma a Wembley e poi a Madrid. E poi ancora: Olanda-Scozia, Portogallo-Svezia, Belgio-Inghilterra. Giusto la Croazia ha puntato su sfide più esotiche (Egitto e Tunisia), però sempre a due passi da casa. E poi noi: due noiosissime amichevoli contro Venezuela ed Ecuador, giocate dall’altra parte del pianeta, tra Miami e New York. Chi altri poteva pensare del resto di organizzare un viaggio intercontinentale nel bel mezzo della stagione, subito prima della volata decisiva in campionato per la qualificazione alla prossima Champions, quattro squadre ancora impegnate nelle coppe e un derby d’Europa League alle porte, e all’orizzonte l’Europeo che allungherà ulteriormente la stagione? Giusto una Federazione che pensa ai propri interessi, e non a quelli del movimento.

Siamo l’unica nazionale fra le grandi d’Europa che nella finestra di marzo – la più odiata da tecnici e calciatori perché arriva nel momento maggiormente delicato della stagione – ha scelto una trasferta così lunga e faticosa, senza grande rispetto per i club e, diciamolo, un po’ anche per i calciatori. Tutte le altre hanno puntato su sfide di prestigio, privilegiando l’avversario (allenante) o la sede (comoda). L’Italia invece si è sobbarcata 7mila chilometri di distanza e sorbita due avversarie modeste. Davvero un mistero, ma fino a un certo punto.

Alla domanda che tutti i tifosi e qualsiasi persona di buon senso si sono posti negli ultimi giorni – perché mai l’Italia gioca negli Stati Uniti? – la risposta è molto semplice: soldi. La Federazione ha provato a spacciarla come una scelta tecnica, facendo filtrare la volontà di tastare l’ambiente in vista dei Mondiali 2026, che svolgeranno appunto in Usa, Canada e Messico. Ma la scusa è davvero poco credibile, considerando che al torneo mancano più di due anni, non ci siamo ancora qualificati e visti i precedenti non è affatto scontato che lo faremo. Se proprio la vogliamo mettere sul piano sportivo, in vista degli Europei (quelli sì un obiettivo attuale) sarebbe stato meglio affrontare un avversario continentale, con filosofie, ritmi di gioco e perché no anche fusi orari affini a ciò che incontreremo a giugno. Facile allora individuare la vera ragione dell’improbabile trasferta: la si ritrova nelle pieghe dell’ultimo bilancio federale, dove sono stati registrati 1,87 milioni di euro in più da manifestazione internazionali, dovuti “in via prevalente” proprio dai proventi della tournée americana. Tradotto: da queste due amichevoli la Federazione ha incassato oltre un milione e non ci ha pensato due volte a impacchettare la nazionale e spedirla a Miami.

Non c’è troppo da stupirsi, considerando le logiche del calcio moderno e il calendario disumano, ingolfato da tutti gli enti organizzatori di partite ed eventi. Una scelta simile in fondo l’aveva fatta qualche mese fa la Serie A, quando a gennaio ha interrotto il campionato delle sue quattro migliori squadre per giocare l’inutilissima Supercoppa d’Arabia. Con una profonda differenza, però: i club vivono di soldi e non potevano rifiutare i milioni sauditi. Ma la Federazione è un’istituzione, e non un’azienda come crede Gravina (e invero anche altri suoi colleghi presidenti). Più che al business, dovrebbe pensare al movimento. E certo non si può dire che questa trasferta servisse al calcio italiano. Ma negli Stati Uniti non c’era solo denaro, molto di più. I rapporti da coltivare con gli sponsor. La visita istituzionale all’Onu, l’incontro diplomatico con l’ambasciatore, le photo-opportunity con Jannik Sinner, nel tentativo di rinsaldare la rete di relazioni e la reputazione, in un momento in cui l’immagine del presidente Gravina – che ricordiamolo, è indagato per autoriciclaggio – è ridotta ai minimi termini. E, poi, perché no, un bel viaggio negli States per l’intero carrozzone federale. La tournée americana è stato un successo per la FederCalcio, non per il nostro calcio. La differenza è sempre più evidente.

Twitter: @lVendemiale

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