Nikola Jokic è un intero sistema di gioco
Si torna a parlare di lui, di Nikola Jokic. Impossibile non farlo. Con estrema probabilità, il prossimo MVP della NBA (sarebbe il terzo). Per la rimonta che ha guidato in settimana contro i Toronto Raptors (35 punti, 17 rimbalzi, 12 assist)? Si, anche per quella. Ma non per la partita in sé stessa. Piuttosto perché Jokic, ancora una volta, e una volta ancora, si è mostrato per quello che è: non un semplice giocatore, per quanto forte. Il centro dei Denver Nuggets è proprio un intero sistema di gioco. Che vuol dire? Vuol dire che agisce in campo come una piattaforma di soluzioni per sé e per gli altri, sopra la quale vengono idealmente posizionati tutti i giocatori con la stessa maglia, ognuno con le sue caratteristiche tecniche e atletiche. Jokic le conosce tutte, le caratteristiche, sa quali sono le situazioni di gioco che prediligono i compagni, e inizia a orchestrare, a elaborare. Obiettivo: mettere la sfera nel cesto. E fa (quasi) sempre la cosa giusta. Fateci caso, il serbo riceve palla e ha già tutto chiaro in mente. Legge la difesa, legge le posizioni dei compagni e decide le mosse. Sa quando deve tirare lui. Se lo battezzano da fuori, fa partire una bomba. Se ha margine spalle a canestro, usa il perno per trovare la conclusione. Sa quando è il caso di mettere in ritmo i tiratori, dopo aver attirato su di sé la difesa. Capisce quando la difesa può essere colpita sul lato debole e serve il taglio delle ali. Si rende conto di un mismatch, prima ancora che questo si verifichi. Si chiama premonizione. In un’azione contro i Raptors, fa un pick-and-roll da bloccante con Jamal Murray. Dopo il blocco, Jokic taglia dentro. La difesa di Toronto decide di cambiare. La stella dei Nuggets (211 cm) si trova marcato da un giocatore più basso, Gradey Dick, rookie di 198 cm, e non ci pensa due volte: mentre corre verso il canestro, in contemporanea, nello stesso movimento, prende posizione, tagliando fuori il giocatore di Toronto prima con la gamba e poi il corpo. Liscio e automatico. Passaggio schiacciato a terra di Murray, ricezione e appoggio comodo per i due punti. Per lui, in stagione, 26 punti di media, con 12,3 rimbalzi e 9,2 assist. È praticamente una tripla-doppia. Ah, da tre sta tirando con il 34,9% e ruba 1,3 palloni ad allacciata. Impressionante.

Kyrie Irving, eterno secondo violino?
Molti pensavano che non sarebbero mai più nati palleggiatori del livello di Kenny Anderson (in maglia New Jersey Nets) o di Allen Iverson (in maglia Philadelphia 76ers). Si sbagliavano. Irving tecnicamente ha un ball-handling ancora più raffinato. È più bravo nei cambi di direzione tra le gambe. È più creativo nel traffico. È più efficace nel cross-over partendo da fermo. È migliore nel mantenere il palleggio per trovare la via del canestro, anche quando un difensore resiste nell’uno-contro-uno. Individualmente, Kyrie Irving non si discute. Può dare vita a veri e propri festival di punti, canestri spettacolari, uno-contro-uno impossibili. Ma ha mai inciso da stella di prima grandezza sulla propria squadra quando contava per davvero? Ai Cleveland Cavaliers vinse il Titolo nel 2016 e un suo tiro da tre fu chiave per battere i Golden State Warriors. Ma era la spalla di LeBron James. Per il resto, esperienze da dimenticare ai Boston Celtics e ai Brooklyn Nets. Ai Dallas Mavericks, Irving è ancora un secondo violino, è Luka Doncic ad avere le chiavi della squadra. Ha avuto problemi fisici, ha saltato alcune partite. Tuttavia, non hai mai dato l’impressione di poter essere quel giocatore in grado di farti fare un salto di qualità vero e importante in ottica anello. L’ex stella di Duke non si è mai mostrato in campo con il phisique du role da leader (non bastano i punti segnati). A margine, anche una serie di dichiarazioni “sopra le righe” su temi di varia natura, che non aiutano di certo lo spessore del personaggio. I Mavericks lottano per agguantare i playoff e già questo è un tema. Kyrie Irving rischia seriamente di essere ricordato come un giocatore bello da vedere, che con un palleggio dietro-schiena sta per una settimana sulla rubrica degli highlights, ma che alla fine ha vinto e inciso solo da spalla di una superstar. È la differenza che passava tra Patrick Ewing (superstar) e Jamal Mashburn (gran giocatore, gran talento). Era sempre la squadra di Ewing, un totem (anche se per mille motivi non ha mai vinto un anello, non importa…). Non era mai la squadra di Mashburn.

That’s all Folks!
Alla prossima settimana.

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