La linea del sostegno incondizionato all’Ucraina rischia di costare cara all’Europa. A spaccarla in due è di nuovo il premier ungherese, Viktor Orbán, o meglio la decisione della Commissione di sbloccare 10,2 miliardi di fondi Ue congelati e destinati a Budapest per convincere il primo ministro magiaro a togliere il veto sugli stanziamenti per Kiev. La Commissione giuridica del Parlamento europeo (JURI), secondo un’indiscrezione pubblicata da Politico, ha giudicato questa mossa dell’istituzione guidata da Ursula von der Leyen una violazione dei propri obblighi a non abusare dei soldi pubblici e ha così deciso quasi all’unanimità di denunciare l’operato di palazzo Berlaymont alla Corte di Giustizia Europea.

La rottura tra la Commissione e diverse formazioni europee, tra cui Socialisti, Verdi, Renew Europe e anche il Ppe di von der Leyen, si è consumata nella giornata del 1 febbraio scorso. Dopo mesi di ostruzionismo da parte di Budapest e pressioni da Kiev, che stava perdendo terreno nel sud del Paese in favore dell’esercito russo, i commissari hanno deciso di prendere la situazione in mano e, secondo l’accusa, di aggirare il veto di Orbán promettendo, in cambio del suo ok all’invio degli aiuti all’Ucraina, lo sblocco di una parte dei fondi Ue congelati per la violazione dello Stato di diritto da parte di Budapest: una tranche da 10,2 miliardi.

La decisione attirò non poche critiche, dato che così l’Ue si piegò al ricatto di un governo che tra gli Stati membri ha iniziato a esercitare il proprio potere ricorrendo sempre più spesso al veto su decisioni altrimenti prese all’unanimità. “È una catastrofe. Abbiamo dato a Orbán un segnale chiaro, se giochi duro alla fine la spunti”, aveva commentato allora Petri Sarvamaa, finlandese del Partito Popolare Europeo, criticando la decisione della ‘sua’ presidente di Commissione.

Il Parlamento, oggi, giudica quella scelta del Berlaymont un uso improprio di fondi Ue, quindi dei contribuenti, perché utilizzare per favorire tutt’altra decisione rispetto alla loro destinazione. La Commissione giustificò la propria mossa spiegando che “l’Ungheria ha preso le misure su cui si era impegnata”, ma niente di concreto, in realtà, era stato fatto dall’esecutivo magiaro in materia di riforme. Così, a un mese e mezzo di distanza, si è arrivati al voto di JURI, dove tutti sono stati favorevoli al ricorso alla Corte di Giustizia Europea, tranne Gilles Lebreton, esponente del Rassemblement National di Marine Le Pen. “Crediamo di avere argomenti solidi, la Commissione si è contraddetta sul fatto che l’Ungheria rispetti lo Stato di diritto – ha dichiarato l’eurodeputato dei Verdi, Daniel Freund – Questo è un segno per la presidente della Commissione che lo Stato di diritto non può essere barattato con accordi con Orbán”.

In piena campagna elettorale per il voto del prossimo giugno, questo scontro tra istituzioni europee rischia di indebolire ulteriormente la ricandidatura già traballante di Ursula von der Leyen per un secondo mandato alla guida della Commissione. E di nuovo a minare le sue possibilità di rielezione arriva una parte del suo partito, il Ppe, dopo una candidatura che ha visto il sostegno di poco più della metà dei delegati al congresso del partito. E adesso rischia di pagare caro anche il supporto assicurato a Volodymyr Zelensky.

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