Israele richiama il suo ambasciatore all’Onu in seguito al “silenzio” sulle violenze sessuali attribuite ad Hamas. “Ho ordinato al nostro ambasciatore all’Onu, Gilad Erdan, di ritornare in Israele per consultazioni immediate in seguito al tentativo di mettere a tacere” le informazioni “sugli stupri di massa commessi da Hamas e dai suoi collaboratori il 7 ottobre”, ha detto su X il ministro degli Esteri Israel Katz. Ci sono “buone ragioni per credere” che vi siano state violenze sessuali, compresi stupri, durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, rivela però un rapporto dell’Onu pubblicato oggi. Per quanto riguarda gli ostaggi, la missione guidata dalla rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, ha raccolto “informazioni chiare e convincenti” secondo le quali alcuni sarebbero stati violentati, e “ci sono buone ragioni per credere che tali violenze siano ancora in corso”. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non ha “in nessun caso” fatto nulla per sopprimere il rapporto sulle accuse di violenza sessuale durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ha detto il suo portavoce Stephane Dujarric rispondendo alle accuse del ministro degli Esteri israeliano.

Basato su testimonianze e interviste, il rapporto sostiene che “i terroristi di Hamas hanno fatto ricorso a pratiche sadiche con la finalità di accrescere le umiliazioni ed il terrore provocati dalle sevizie sessuali”. Intitolato ‘Urlo silenzioso’ il testo rileva elementi di “sistematicità e di evidente intenzionalità” nelle sevizie e secondo Tel Aviv costituisce una base di documentazione “relativo ad una grande mole di crimini”. Le violenze di Hamas sono oggetto di accuse e contestazioni già da novembre scorso, quando finirono al centro di un lungo articolo del New York Times. Allora erano state sollevate critiche – interne e non solo – per l’attendibilità delle fonti – molte delle quali indirette – e per la biografia degli stessi autori, in passato vicini o contigui all’intelligence militare israeliana.

Intanto l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, ha dichiarato oggi che le autorità israeliane hanno torturato alcuni membri del suo staff durante gli interrogatori. “Alcuni membri del nostro personale hanno riferito alle squadre dell’Unrwa di essere stati costretti a confessare sotto tortura e maltrattamenti” mentre veniva chiesto loro dell’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre, ha precisato l’agenzia dell’ Onu.

Nel giorno dell’ennesimo scontro diplomatico, una fonte di Hamas regala una speranza a chi si adopera per una tregua a Gaza: il primo weekend di Ramadan potrebbe essere quello giusto. Dopo giorni di tentativi, avvicinamenti e fallimenti nel dialogo tra Israele e il partito armato palestinese su uno stop ai raid su Gaza in cambio di un’intesa sugli ostaggi, il Wall Street Journal cita una voce dall’interno della formazione islamista secondo la quale l’obiettivo di cessare il fuoco prima del mese sacro per i musulmani, che inizia il 10 marzo, sembra difficile da raggiungere, ma si può arrivare a una tregua la settimana successiva. Anche secondo i mediatori di Egitto, Qatar e Stati Uniti ci sono stati “progressi significativi“, secondo quanto riportato dai media locali. Ma Hamas gela tutti dichiarando che “è impossibile sapere esattamente chi è ancora vivo” tra gli ostaggi.

Le dichiarazioni sono arrivate dal funzionario politico di Hamas, Basim Naim, che parlando da Istanbul in un’intervista alla Bbc ha detto che l’organizzazione non può fornire a Israele un elenco degli ostaggi ancora in vita perché non sa chi sia vivo e dove si trovino tutti. “Fino ad ora non abbiamo presentato alcuna lista – ha detto Naim -, ma prima di tutto, tecnicamente e praticamente, ora è impossibile sapere esattamente chi è ancora vivo e chi è stato ucciso a causa dei bombardamenti israeliani o chi è stato ucciso per fame a causa del blocco israeliano”. Gli ostaggi, ha aggiunto, “si trovano in zone diverse, tenuti da gruppi diversi e quindi abbiamo chiesto un cessate il fuoco per poter raccogliere le informazioni”. Affermazioni ribadite poche ore più tardi da altre fonti vicine agli islamisti che, al media egiziano online Mada Masr hanno dichiarato di “non essere obbligati a fornire l’identità” degli ostaggi ancora vivi.

Ogni giorno senza un accordo significa altre morti palestinesi sotto le bombe di Israele. Nella notte tra domenica e lunedì, un raid di Tel Aviv si è abbattuto sul campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, oltre che nelle aree di Sheikh Zayed e Tal Al-Zaatar, nel nord dell’enclave. Sono almeno 12 le persone rimaste uccise in questi raid che, secondo l’esercito israeliano, hanno portato anche alla morte di un importante esponente di Hamas nei “campi centrali” della Striscia, Mahmoud Muhammad Abed Haz, coinvolto nella raccolta di fondi per l’attività militare e nel reclutamento di nuovi miliziani per il battaglione del quartiere Zeitoun. Le Idf hanno pubblicato un breve filmato che mostra il momento dell’attacco contro la sua auto.

Le bombe dello ‘Stato ebraico’ hanno continuato a colpire anche Rafah, la città all’estremo sud della Striscia, al confine con l’Egitto, dove si sono ammassati circa 2 milioni di sfollati. Almeno 7 persone sono morte nei raid e molte altre sono rimaste ferite, secondo fonti mediche locali, dopo l’attacco su una casa.

Dal gabinetto di guerra israeliano, però, si continua a dire che il conflitto non si fermerà finché Hamas non sarà estirpata totalmente. Questa volta, a ribadire il concetto è il ministro della Difesa, Yoav Gallant: “Non c’è nessuno che aiuti i terroristi, è solo questione di decidere di cosa occuparci prima e di cosa poi. Non porremo fine a questa guerra senza eliminare Hamas”. A Washington non sembrano però apprezzare questo atteggiamento intransigente, anche se per il momento il sostegno a Tel Aviv non è mai stato negato, se è vero che Joe Biden si è rifiutato di parlare al telefono con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dopo l’attacco delle Forze di difesa israeliane ai palestinesi in fila per ricevere aiuti umanitari a nord di Gaza, come riporta Sky News Arabia.

Da verificare anche quale sia il clima all’interno dell’esercito dopo quasi 5 mesi di guerra. Nella prima mattinata di lunedì è circolata la notizia di un’ondata di dimissioni nell’unità del portavoce dell’Idf, con Daniel Hagari che ha lasciato l’incarico insieme ad altri collaboratori stretti: il colonnello Butbul, il colonnello Moran Katz e il portavoce internazionale, il tenente Richard Hecht. Dietro le dimissioni ci sarebbero stati motivi “operativi e personali”. Ma Al Jazeera, che ha rilanciato la notizia di Channel 14, ha dovuto poi ritirarla: “Una precedente notizia – hanno scritto su X – citava un rapporto israeliano secondo cui i membri senior dell’unità del portavoce dell’esercito israeliano, compreso il portavoce Daniel Hagari, si erano dimessi. Ciò non è corretto e l’abbiamo ritirata”.

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