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Sanremo, Gramsci e la politica afona: ancora una volta, non sono solo canzonette

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Ora che gli echi di Sanremo, con annesse polemiche politiche, si sono spenti, si può provare a fare una riflessione semiseria sul festival che dimostra ogni anno che non sono solo canzonette. Nel 2023, Sanremo era stato il campo della protesta della destra contro “la sinistra che si era impossessata del palco dell’Ariston”. Da lì aveva lanciato messaggi che riguardavano soprattutto due campi: la fluidità sessuale, la difesa delle rivendicazioni del mondo Lgbtq+; e l’accoglienza dei migranti, con conseguenti accuse di razzismo alla destra. I protagonisti simbolo di questa presunta occupazione del festival furono Fedez che strappava l’immagine di un viceministro in divisa nazista; la pallavolista Paola Egonu che denunciava il persistente razzismo italiano; gli Articolo 31 che chiedevano a “Giorgia: legalizzala!”, sottintesa la marijuana; cantanti come Madame e Achille Lauro che esibivano una sessualità fluida e “trasgressiva”.

La reazione sui giornali di destra fu: “Fuori la politica dal festival” (Pietro Senaldi, ma anche Carlo Cottarelli). E ancora: “Dov’è mai in Italia l’Alabama del razzismo?” (Giuseppe Cruciani); e un imbarazzante Nicola Porro che come posseduto dal demonio urlava su TikTok: “Tutti comunisti a Sanremo, porca puttana, non ce n’era uno che non fosse comunista”.

In verità, quella che andò in scena a Sanremo 2023 era semmai una “sinistra” dei social e degli influencer, senza la politica, che ormai non sa più indicare obiettivi né influenzare stili di vita. Il rapporto è ribaltato: la “società civile” è più forte e del tutto sganciata della politica, che è afona e disorientata, quando non complice.

Un anno dopo, la destra si è intanto impossessata della Rai e a Sanremo 2024 si vede ancor più lo scollamento tra politica e cultura diffusa. Ghali, Mahmood, Dargen D’Amico, ma anche Geolier portano sul palco dell’Ariston una “società civile” lontana mille miglia dalla politica, da ogni politica, di destra e di sinistra. Loro fanno “egemonia culturale”, forse anche senza accorgersene (“Quando mi dicon: Vai a casa!/rispondo: Sono già qua”). Mentre la sinistra resta afona, e la destra (a dispetto del suo presunto gramscismo wannabe) sa usare solo il “dominio” dei cartoncini letti da Mara Venier e dell’occupazione filogovernativa della tv. Contro ogni richiesta di fermare una guerra che forse non sarà “genocidio”, ma di certo è sterminio e massacro di civili.

È inedito lo scenario attuale. In un mondo in cui – direbbe Gramsci – il potere ha occupato ogni spazio e la politica ha smesso quasi del tutto di fare opposizione, nascono e si affermano comunque forme di “egemonia culturale” alternativa al mainstream, come quelle rappresentate da Ghali o Mahmood, “italiani veri” figli di immigrati, mezzi tunisini o egiziani, che conquistano il mercato ma non dimenticano le loro radici, nei quartieri milanesi di Baggio o di Gratosoglio (sì, forse è proprio vero che “l’essere sociale determina la coscienza”).

È una “egemonia culturale” acefala e rizomatica, che ha rapporti più con il mercato (streaming, social) dentro cui cresce che non con la politica, che – almeno nella visione gramsciana – poteva consolidarla e guidarla verso il cambiamento sociale. Chissà se il destino inesorabile sarà la marginalizzazione, la ghettizzazione delle voci fuori dal coro, o il loro riassorbimento nel mainstream, oppure la vittoria del “dominio” della politica e del mercato?

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