di Angelo Perrone

La reazione più istintiva ed immediata, dopo la notizia, è: siamo molto dispiaciuti per la morte di Aleksei Navalny. Perché ci sono condanna, stupore e inquietudine. Nella tragedia di una morte annunciata, si avvertono partecipazione umana e solidarietà politica. Quest’uomo coraggioso si è battuto sino alla fine. Non sono mancate, peraltro, note stonate che segnalano l’ambiguità dei rapporti con la Russia di Putin e la mancanza di chiarezza sui valori di civiltà. La Lega di Salvini, contro ogni ragionevolezza, ha suggerito “cautela sulle colpe”, scatenando la bufera.

Il cordoglio non è più sufficiente, specie in un momento come questo; serve una riflessione sulla società russa, amata per la cultura e martoriata dalle vicende storiche, e sul governo che l’opprime. Il sentimento di sconforto e tristezza, alla base di tante considerazioni, è sincero e spontaneo; alla fine però inadeguato. “Spero che la reazione non sia solo questa, non sarebbe abbastanza”, avverte preoccupata Marina Litvinenko, la vedova in esilio di Aleksander, che 18 anni fa moriva a Londra, avvelenato con il polonio dai sicari di Putin.

Ora la storia si ripete, non meno estrema e drammatica. A morire, è il principale oppositore di Putin in questo momento, in carcere da oltre tre anni con una condanna a diciannove, trasferito da gennaio in una colonia penale della Siberia, dove la temperatura è meno quaranta gradi. Non erano sufficienti – per stroncarne la resistenza psicologica e prevedibilmente la vita – le altre restrizioni comuni.

Una cella di tre metri per due, dove di giorno è impossibile sdraiarsi perché il letto è ripiegato, e nella quale non possono essere tenuti oggetti personali di qualsiasi tipo, salvo un libro, una tazza e uno spazzolino. In tre anni di detenzione, trecento giorni di isolamento per motivi pretestuosi (…) Lui si vedeva come un leader della Russia e non accettava, per sconsiderata follia o coraggio estremo, di esserlo fuori dal suo paese. Doveva rientrarvi e stare con la sua gente. Forse sapeva di andare incontro ad un destino da martire e lo ha previsto, incarnando così un simbolo audace di libertà, oppure ha sbagliato i calcoli dell’ultima scommessa, illudendosi che il regime non fosse così orribile e spietato. (…) L’illusione che amplificare la sua voce in Occidente potesse salvargli la vita è stata contraddetta dalla realtà. Le dittature sono attraversate da una perversione intrinseca, refrattaria a qualsiasi sollecitazione esterna.

Eppure i segnali che potevano mettere in guardia l’Occidente erano tanti. Il nome di Navalny è solo l’ultimo di una lista nutrita di esponenti del dissenso russo, vittime di veleni, omicidi o incidenti: messi a tacere in tutti i modi possibili. La giornalista Anna Politkovkaja fu uccisa nel 2006, l’anno dell’avvelenamento di Litvinenko, nell’ascensore di casa, aveva scritto tanti reportage critici sulla repressione ordinata da Putin in Cecenia. Nel 2015, ignoti uccisero in strada il volto più noto dell’opposizione al regime, Boris Nemtsov. Poi altri casi di morti sospette e suicidi misteriosi: Sergei Magnitsky deceduto nel 2008 in carcere; l’oligarca Boris Berezovsky trovato morto nel 2013. Navalny era già in prigione, un simbolo, quando Putin decise, sfacciatamente e sicuro dell’impunità, l’ultima mossa, l’invasione dell’Ucraina.

Sono tanti gli avvisi che l’Occidente ha ignorato o minimizzato. Episodi ritenuti minori, derubricati a fatti quasi irrilevanti, incapaci di incidere sul canovaccio della diplomazia, costruito sull’illusione di una convivenza con la dittatura putiniana, magari intervallata – per salvarsi la coscienza – da riprovazioni di facciata e sanzioni effimere. Era un atteggiamento determinato da ragioni affatto nobili: non l’amore verso quel paese, per cultura, storia, letteratura e musica, quanto per opportunismo economico e simpatie autoritarie.

La morte di Navalny dovrebbe aprire gli occhi agli ultimi illusi, smentire le supposizioni sull’efficacia di atteggiamenti compiacenti verso Putin, ma è più prudente non sbilanciarsi sulle capacità dissuasive della Storia. Piuttosto, per chi si commuove di fronte al destino di sognatori, alla maniera di Navalny o prima della Politkovskaja, si prospetta un’altra possibilità, che diventa impegno doveroso: interrogarsi sulla società russa, e sulle speranze che vi sono nascoste. Sul modo di contribuire alla rinascita. Un’impellenza vitale: è un popolo ripiegato su sé stesso, oppresso da gruppi di potere, perseguitato nei suoi figli più meritevoli, in cerca della forza di reagire.

Per quanto la cosa richieda infinita fatica e sembri francamente illusoria, bisognerebbe confidare, nonostante la spietatezza del Cremlino, che quel mondo, in parte europeo, trovi, per vie misteriose e imprevedibili, il modo di inseguire il sogno democratico, che ha fatto tante vittime, ed oggi è amaramente infranto con la morte di quest’uomo. Ci credeva Osip Mandelstam, il poeta russo morto nel gulag di Stalin. Aveva ragione lui. La Russia è davvero un posto strano. Un luogo che uccide i suoi figli migliori, e governato da gente come Stalin o Putin. Ma è anche la terra di tipi così diversi e coraggiosi come Osip Mandelstam, Anna Politovskaja e Aleksei Navalny.

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