Il disimpegno di Stellantis dall’Italia e da Torino è cosa fatta da tempo, diversamente sarebbe difficile spiegare il milione e più di metri quadri inutilizzati da anni a Mirafiori, forse in attesa di una revisione del piano regolatore torinese che ne aumenti il valore, e il massiccio impiego di interinali a rimpiazzare i buchi quando la produzione tira un po’ di più. La parabola dello stabilimento “Giovanni Agnelli” di Grugliasco (ex-Bertone) racconta, una volta di più, una storia che non comincia con gli Elkann.

L’ultima volta che sono entrato nello stabilimento ormai ex-Maserati di Grugliasco era il 1999. Non si chiamava ancora così e non apparteneva alla Fiat. Si chiamava Carrozzeria Bertone e l’occasione era il lancio sul mercato del ciclomotore C1 della BMW ideato, progettato e prodotto lì. Un ciclomotore che, per le sue caratteristiche costruttive, cinture di sicurezza e barra laterale, garantiva una protezione al conducente tale da essere omologato per la guida senza casco. Una boccata d’ossigeno per l’occupazione già allora massicciamente sostenuta da cicli eterni di cassa integrazione, invece era l’inizio della fine per i 1100 dipendenti e per la proprietà.

Erano già lontani gli anni d’oro, quando nello stabilimento si producevano vetture per le grandi case europee e americane, le ultime progettate dalla Stile Bertone a Caprie: la Fiat Dino, le Lamborghini Miura e Countach (esclamazione piemontese che significa all’incirca “perbacco”!), Citroen, Volvo, Alfa Romeo, Cadillac, Lancia… Dieci anni dopo, nel 2009 tutta l’attività industriale viene ceduta alla Fiat, lo stabilimento diventa FGA-OAG (Officine Automobilistiche Grugliasco). La Stile Bertone Caprie – progettazione e realizzazione di prototipi – fallisce nel 2014. Oggi resta in piedi la Bertone Design s.r.l. con sede a Milano a cui è stato conferito il marchio Bertone e che non progetta più automobili. Mentre si consumava il disastro, la Fiat cominciava il suo disimpegno da Torino e dall’Italia.

Tra il 2000 e il 2004 – anno in cui arrivò Sergio Marchionne – il numero di dipendenti del Gruppo Fiat in Italia era calato del 28,3% (da 114mila a 71mila). Le fusioni e gli scorpori si sono succeduti negli anni, difficile in breve dare conto con precisione, ma nel 2017 il Gruppo FCA dichiarava 60mila dipendenti in Italia, grosso modo il 25% dei dipendenti del Gruppo. Nella sola Mirafiori gli addetti in quattro anni sono diminuiti del 26,7%, oggi sono poco più di 11mila, dei quali parecchi prossimi alla pensione. Gli enti pubblici piemontesi continuarono a diventare il rifugio dei dirigenti Fiat, stavolta cacciati da Marchionne, a causa delle pessime performance in azienda, accompagnati da cortigiani e damazze del bel mondo aziendale che non c’era più.

Avevano concorso anche loro nel ’93 alla costruzione del “sistema Torino”, un centinaio di persone “ […] provenienti da cinque ambienti: il milieu Fiat, quello accademico, il milieu ex PCI, quello liberal, ispirato ai principi del liberalismo, il milieu cattolico, in linea con la Curia. Questo insieme di persone ai vertici del sistema locale per posizione organizzativa, funzione, prestigio, ecc. ha influenzato direttamente o indirettamente il policy making per tutta la durata del Modello Torino.” (Belligni e Ravazzi, La politica e la città. Regime urbano e classe dirigente a Torino, il Mulino 2012). Nei primi anni ha contribuito a costruire nuove vocazioni per la città, sempre meno “fabbrica”, culminato con le Olimpiadi invernali 2006, canto del cigno della famiglia Agnelli. Da lì in poi contribuisce a soffocarla accompagnandola in un declino che non sembra avere fine.

Quella della Carrozzeria Bertone era considerata “aristocrazia operaia”, la chiamavano proprio così qui in Piemonte: alta specializzazione, forte sindacalizzazione, grande capacità di alimentare il sindacato e la società con militanti preparati, capaci di costruire battaglie di avanguardia che diventavano il modello per le tante realtà industriali del torinese e della regione. A meno di due chilometri dalla Bertone c’erano le Carrozzerie Pininfarina e l’ITCA: migliaia di lavoratori qualificati (in vetta i battilastra) capaci di produrre carrozzerie per l’auto di lusso italiana. Un indotto coi fiocchi, si direbbe, di quelli che farebbero gola a qualunque investitore che volesse affermare il suo primato nel mercato di un prodotto “maturo” che ha bisogno di appeal e di tecnologia per competere.

Della Pininfarina (2000 dipendenti nei tempi d’oro) è rimasta la “galleria del vento”, la sede oggi è a Cambiano, estrema periferia est di Torino, con i dipendenti residui, meno di 300. Per il suo rilancio, fiumi di danaro pubblico e la promessa dell’auto elettrica di Bollorè, poi finita in variante urbanistica e palazzi. L’ITCA è chiusa, la sede di Sparone fallita da tempo.

Una parte del gigantesco indotto Fiat – una rete di migliaia di aziende medie e piccole strettamente dipendenti dal cliente principale – fin dalla fine degli anni 90 ha ben interpretato i campanelli di allarme che suonavano incessantemente. Si sono rivolti ad altri costruttori, europei e non, svincolandosi dall’abbraccio asfissiante di mamma Fiat. Così sono riusciti a sopravvivere e a rilanciare la loro attività aprendo nuove filiere e collaborazioni.

Ho avuto il privilegio di assistere a questa trasformazione da responsabile di un consorzio di p.m.i. che sorge proprio a ridosso dello stabilimento “Giovanni Agnelli”. Ho così potuto chiedere ripetutamente alla politica di valorizzarlo, questo benedetto indotto, aiutandolo a organizzarsi, cercando altri costruttori, capaci di far valere il principio del libero mercato anche qui, nella terra della Fiat. La politica ha scelto di foraggiare e non disturbare il padrone. Ed eccoci qua.

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