Marco Magnani, economista Luiss Roma e Università Cattolica Milano, manda in libreria Il Grande Scollamento. Timori e speranze dopo gli eccessi della globalizzazione (Bocconi University Press). Il libro ricostruisce storia e tappe dei processi di globalizzazione che si sono sovrapposti nel corso dei secoli ed è una riflessione sullo stato attuale dei rapporti internazionali e sul modo in cui potrebbero evolvere in un prossimo futuro.

Professor Magnani, alla fine del 2001 la Cina entra nell’Organizzazione mondiale del commercio. Segue un ventennio di intensificazione delle relazione commerciali internazionali e di relatività, per qualcuno molto relativa, stabilità. Cosa sta accadendo ora?

L’epoca di quella che potremmo definire la pax americana è al tramonto e siamo entrati in una fase nuova. Il mondo è più diviso di prima e i diversi blocchi sono come placche tettoniche che a volte si allontanano, a volte si avvicinano e altre volte si scontrano. Ci sono sempre più battitori liberi che agiscono ispirati dal pragmatismo e si organizzano cone alleanze a geometria variabile. Penso soprattutto a paesi come India, Brasile o Turchia ma non solo. L’India è uno dei casi più esemplificativi, è alleata con gli Usa e formalmente ancora in guerra con la Cina. Però fa anche parte dei Brics, con la stessa Cina e in parziale contrapposizione con gli Stati Uniti. Nei Brics dovrebbe entrare a breve anche l’Arabia Saudita ed è già entrato l’Iran. Sebbene tra i due paesi ci sia stato di recente un riavvicinamento sotto la regia cinese, rimangono le due potenze contrapposte del Medio Oriente, una sciita e l’altra sunnita. Ci troviamo in una situazione che presenta molti rischi e incognite. Questa frammentazione si traduce altresì in un depotenziamento e in una crisi delle organizzazioni di cooperazione internazionale come l’Onu, l’Oms o il Wto. Lo vediamo anche con la guerra in Ucraina e a Gaza, dove il ruolo svolto da questi soggetti risulta assolutamente marginale. Un mondo più frammentato è un mondo più pericoloso ed il mio grande timore è che questa condizione possa evolvere in un caos generalizzato con costi sociali ed economici potenzialmente enormi.

Ci sono già ricadute economiche e commerciali di questa evoluzione geopolitica?

Non si può ancora parlare di un’inversione di tendenza. I commerci internazionali non arretrano come non lo fanno i flussi di investimenti transfrontalieri. Tuttavia si assiste ad un significativo rallentamento di tutte quelle dinamiche economiche proprie della globalizzazione. Siamo entrati in quella che il settimanale Economist ha definito “Slowbalization”, la globalizzazione lenta. Per quanto concerne nello specifico i commerci, abbiamo assistito a due momenti di crollo, nel 2008 e 2020, che sono però facilmente spiegabili con la grande crisi finanziaria e con il Covid. Più significativo è guardare a quanto è accaduto nel decennio che intercorre tra queste due date. E lì il rallentamento è evidente.

Lei però nel suo libro parla anche degli eccessi della globalizzazione. Questa fase di rallentamento non potrebbe essere l’occasione per ripensare certe dinamiche e impostarle su basi di maggiore sostenibilità?

Capisco il punto ma è bene tenere presente che gli eccessi di cui parlo non sono legati all’intensificarsi dei commerci quanto piuttosto alla distribuzione della ricchezza che la globalizzazione ha permesso di generare. Per intenderci, senza dubbio la torta si è allargata ma le porzioni vengono spesso distribuite male, sia tra paesi che al loro interno dei paesi. Continuo ad essere convinto della correttezza di associare alla globalizzazione le cosiddette tre “P”, ovvero pace, povertà (nel senso che diminuisce) e progresso. Poi certamente abbiamo assistito a fenomeni come l’aumento delle diseguaglianze e l’impoverimento della classe media in molti paesi, ma ripeto questo è un problema di distribuzione.

Un altro elemento di criticità è il fatto che una interconnessione più stretta fa sì che gli choc (guerre, incidenti, malattie) si propaghino immediatamente a tutto il sistema. Ciò pone problemi anche per la sovranità degli stati, una questione che fu individuata con una certa preveggenza dall’economista Dani Rodrick nella sua idea di trilemma per cui un paese può avere solo due cose tra sovranità, democrazia e globalizzazione, non tutte e tre.

Ma la volontà politica di uno stato di sottrarsi alle dinamiche globalizzate per recuperare una parte della sua sovranità può essere sufficientemente forte da superare i “vincoli” che le interazioni commerciali hanno ormai costruito in modo capillare?

Non si tratta solo di una volontà politica di un governo ma di un orientamento che segue la volontà popolare. E di questi tempi vediamo un po’ dappertutto risorgere orgogli nazionalisti. Un agente puramente razionale probabilmente riterrebbe poco conveniente disfarsi di questi legami commerciali ma questo non significa affatto che ciò non possa accadere. La storia, anche in questo, è maestra. La belle époque, da inizio ‘900 fino allo scoppio della prima guerra mondiale, fu un periodo di fortissima globalizzazione, eppure ciò finì la deflagrazione del conflitto. Insomma, la globalizzazione non è irreversibile, abbiamo visto che non è così. Eppure, di fronte a sfide globali come i cambiamenti climatici, la risoluzioni dei conflitti, la lotta al terrorismo, etc ci sarebbe bisogno più che mai di una stretta collaborazione tra stati per orchestrare azioni coordinate.

Lei fa riferimento alla crisi climatica. Ma le chiedo, in fondo la globalizzazione non è uno dei fattori che ha drammaticamente accelerato questa crisi?

I suoi eccessi certamente si. Quando guardiamo alle gigantesche porta container che solcano gli oceani, trasportando magari dall’Australia beni che potrebbero tranquillamente essere prodotti qui, con un viaggio che produce un altissimo impatto ambientale, ce ne rendiamo facilmente conto. Sono eccessi che vanno verso un ridimensionamento anche perché i costi di trasporto stanno salendo, l’energia costa di più, dal canale di Panama si fatica a passare a causa della siccità, nel mar Rosso ci sono gli Houthi…e via dicendo. Più in generale va però ricordato come, purtroppo, esista una sorta di trade off tra sostenibilità sociale e sostenibilità ambientale. In altri termini, se voglio portare moltitudini fuori dalla miseria. questo comporta un impatto ambientale. Molti studi dimostrano però che in un paese nella prima fase di industrializzazione le emissioni salgono drammaticamente ma successivamente tendano a ridursi in maniera importante.

Come sarebbe secondo Lei la globalizzazione ideale?

In teoria, sulla carta, un mondo di liberi scambi ma con una forte governance globale in grado di fissare regole comuni e affrontare i problemi che si risolvono solo in un’ottica comune, come appunto la distribuzione, l’accesso alle risorse o la crisi climatica. Più realisticamente, torno a guardare alla storia. Nonostante tutti i lati negativi, che ci sono, fasi in cui è presente una superpotenza egemone sono generalmente quelle in cui è aumentata la prosperità e si è ridotta la conflittualità. Il mio non è un auspicio ma una semplice constatazione di quanto accaduto in passato.

Oggi ci troviamo con un’America declinante e una Cina emergente ma non ancora del tutto emersa e probabilmente senza le capacità di assumere questo ruolo di potenza egemone. Il modello cinese rimane molto poco attrattivo a livello internazionale e quindi non in grado di generare attorno a se un diffuso consenso o accettazione. Per la stessa ragione non ritengo molto probabile neppure lo scenario di un”G2″ con i due paesi che si spartiscono sfere di influenza. Torniamo quindi alla frammentazione di cui abbiamo detto all’inizio.

Il declino del ruolo statunitense è irreversibile?

No, non direi. Ma molto dipenderà da quello che accadrà in futuro, a cominciare dalle elezioni del prossimo autunno. Le democrazie liberali, pur con i loro difetti, che ci sono, hanno mostrato nel tempo di avere una grande capacità di rigenerarsi. E, ripeto, al momento non si vedono modelli altrettanto attrattivi. Dovremmo però avere una maggiore consapevolezza del valore della libertà e della democrazie, cose che stiamo dando un po’ troppo per scontate mentre non lo sono affatto. In fondo vale sempre quel che diceva Winston Churchill per cui la democrazia è “il peggior sistema di governo che ci sia ad eccezione di tutti gli altri”.

Globalizzazione sotto la regia di una potenza egemone non è una formula gentile per dire imperialismo?

La parola imperialismo ha una connotazione troppo negativa quindi non la userei. L’egemonia delle superpotenze nel corso della storia ha avuto risvolti sia positivi sia negativi. Roma ha costruito le strade, fatto le leggi, dato una lingua al mondo ma ha anche fatto guerre e schiavizzato popoli. I mongoli hanno reso possibile il commercio e lo scambio culturale e di innovazioni tra Europa e Asia ma l’orda mongola era nota per la sua crudeltà ed efferatezza. L’ Impero britannico ha stimolato commercio e investimenti ma ha sfruttato le colonie e il libro dedica una particolare agli impatti sull’India. Ma, piaccia o meno, in mancanza di regole comuni e cooperazione internazionale, o c’è qualcuno che si assume un ruolo di leadership oppure si rischia di scivolare nel caos.

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