Il malcontento degli agricoltori lasciato a macerare per anni e i piani della politica, pronta a ignorarlo, cavalcarlo, assecondarlo. La protesta dei trattori va avanti da giorni, ma ha radici profonde se oggi le istanze sono tanto diverse da scindere in pezzi uno dei settori trainanti dell’economia europea e se la politica è pronta a sconfessare se stessa. Come ci sono arrivati gli agricoltori e come ci è arrivata l’Unione Europea a quattro mesi dalle elezioni? Negli ultimi anni gli agricoltori hanno fatto i conti con cambiamenti climatici, pandemia, crisi economiche, strapotere della grande distribuzione organizzata, prezzi sempre meno equi, guerra per i contributi europei, inflazioni, speranze e timori per una transizione ecologica tutta da attuare. Con le politiche, nazionali e comunitarie, di destra e di sinistra, amiche e nemiche a seconda della prospettiva, del pezzo di mondo agricolo da raccontare. Ognuno con istanze e interessi diversi. Sono stati gli anni del Green Deal e, in particolare, delle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030, ma anche gli anni di preparazione alla nuova Pac (politica agricola comune) oggi in vigore, che avrebbe dovuto accompagnare queste strategie e, in generale, la transizione. Oggi, però, è tutto messo in discussione. Il governo italiano si prende il merito dei dietrofront targati Ue ma, ancora una volta, le soluzioni tampone non possono bastare. E non fermano i trattori né i ripensamenti sul taglio dell’Irpef, né le promesse di bonus e di 8 miliardi di Pnrr da destinare all’agricoltura.

La promessa del Green Deal – Se si guarda agli ultimi cinque anni di legislatura europea, le parole pronunciate da Ursula von der Leyen nel suo discorso di insediamento alla guida della Commissione Ue sembrano solo un lontano ricordo. “La nostra sfida più pressante è mantenere il nostro pianeta sano. Questa – sosteneva – è la più grande responsabilità e opportunità dei nostri tempi. Voglio che l’Europa diventi il primo continente neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050”. Un piano legittimato anche dall’epidemia di Covid-19 che aveva riportato la necessità di rivedere i propri stili di vita in cima all’agenda dei leader. Perché a pagarne il prezzo, aveva spiegato la stessa von der Leyen, erano anche “i coltivatori di frumento finlandesi che soffrono la siccità o francesi che affrontano una mortale ondata di calore”. Anche in Italia a pagare le conseguenze degli effetti dei cambiamenti climatici sono stati in primis gli agricoltori, rimasti senza l’acqua dei ghiacciai, costretti a cambiare le colture, a fare i conti con le alluvioni.

Lo smantellamento delle misure europee (già prima delle proteste) – Eppure, si è continuato a smantellare il Green Deal pezzo dopo pezzo, con il Partito popolare europeo della von der Leyen sempre più spaccato sulle misure traino. Qualche esempio: la direttiva sulla qualità dell’aria doveva entrare in vigore nel 2030, ma per adeguarsi ai nuovi limiti imposti dall’Oms gli Stati membri hanno chiesto almeno dieci anni in più, la revisione della direttiva sulle emissioni industriali non ha incluso gli allevamenti di bovini e se pure è fallito il tentativo delle destre di demolire il regolamento sul Ripristino della natura, la cui approvazione è a un passo, è pur vero che il testo finale indebolisce molti obiettivi della proposta originaria della Commissione Ue, riflettendo le concessioni fatte al Ppe e al comparto agro-industriale. Eppure, alle prime manifestazioni con i trattori, sono stati in molti a puntare il dito contro ciò che resta del Green Deal e, in particolare, contro alcune misure, come il regolamento sui pesticidi e l’obbligo di lasciare il 4 % dei terreni incolto, condizione imposta dalla Politica agricola comune per accedere ai fondi europei. In realtà, la proposta di Bruxelles di dimezzare l’uso dei pesticidi in agricoltura entro il 2030 (relatrice del testo l’eurodeputata austriaca dei Verdi, Sarah Wiener, ndr) era già stata respinta a novembre 2023 dal Parlamento europeo. Tornato in Consiglio, il regolamento si era arenato a causa dei veti dei Paesi membri. Anche l’obbligo di lasciare il 4% dei terreni incolti era già stato sospeso nel 2023, a causa della guerra in Ucraina e, anche in quel caso, ha subito comune degli ‘aggiustamenti’.

Le ragioni profonde della protesta – La verità, dunque, è molto più complessa, proprio perché il mondo agricolo è fatto di piccole aziende a conduzione familiare, altre che da anni investono su pratiche più sostenibili, agroindustria, organizzazioni di settore – le più grandi e potenti, ma anche le piccole spesso tenute fuori dai tavoli che contano. Tutti portatori di interessi diversi quando non opposti, e la politica europea non è stata in grado in questi anni di rappresentare tutte le istanze con lo stesso fervore. In Italia, per esempio, il Governo Meloni si è affrettato a vietare un prodotto già vietato, la carne coltivata, con una legge che diventerà inapplicabile appena l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare l’approverà, ma non si è occupato di risolvere una serie di problemi concreti e ben più sentiti sui campi. Sono anni che gli agricoltori fanno i conti con crisi dei prezzi, aumento dei costi di produzione, effetti dei cambiamenti climatici, strapotere della grande distribuzione e pratiche sleali (che neppure la direttiva ha risolto). Il risultato è l’impossibilità di vedersi garantito un prezzo equo pagato per i propri prodotti e, di conseguenza, un reddito. In questo contesto, il venir meno di alcuni sussidi – o anche l’obbligo di tenere i terreni a riposo – ha fatto esplodere la rabbia. In Germania e Francia la protesta si è scatenata, rispettivamente, dopo il taglio dei sussidi e l’aumento delle tasse sul gasolio, ma i motivi sono diversi, a iniziare dall’eccessiva burocrazia da affrontare per accedere ai fondi. Nei Paesi dell’Est causa scatenante è stata la competizione creata con i prodotti agricoli provenienti dall’Ucraina importati senza dazi. Anche in Italia, il fatto che la Manovra per il 2024 non abbia esteso l’esenzione Irpef per i redditi agrari e per quelli derivanti dal possesso di terreni è stata certamente la goccia che ha fatto traboccare il vaso, che però era già colmo da tempo. Un emendamento al decreto Milleproroghe, che sta creando tensioni anche tra Lega e Fratelli d’Italia, potrebbe riproporre ora l’esenzione, ma solo per i redditi bassi e non per tutti, come è stato dal 2017. E questa non potrà mai essere la soluzione dei problemi. E neppure l’obbligo di mettere a riposo il 4% delle terre a rotazione, al centro di uno dei primi annunci di dietrofront dell’Europa, insieme a quello del freno all’accordo commerciale tra Ue e Paesi del Mercosur contro cui si era battuta soprattutto la Francia.

L’Europa dà il contentino sui terreni incolti, ma la sfida della Pac è persa – Intatta, invece, resta la struttura della nuova Pac, che ha portato gli agricoltori europei al punto in cui sono. Eppure si parla di 35 miliardi di euro solo per l’Italia. Come si è arrivati a questo punto? Dopo tre anni di complessa negoziazione e un accordo politico al ribasso raggiunto tra Commissione, Europarlamento e Consiglio, a novembre 2021 è stato messo il sigillo a pochi passi in avanti (come la condizionalità sociale volontaria con cui si dovrebbero negare i sussidi a chi sfrutta i lavoratori, ndr) e la conferma dello status quo. Ossia l’80% dei sussidi al 20% delle aziende agricole, le più grandi. Così, mentre le piccole fattorie scompaiono, si continuano a sostenere monocolture e allevamenti intensivi, dimenticando che il metano e il protossido di azoto emessi dall’agricoltura industriale sono gas serra più potenti dell’anidride carbonica. A ottobre 2023, d’altronde, è stata l’Ocse a dare il suo giudizio senza sconti, spiegando che la Politica agricola comune dell’Unione europea ha perso negli ultimi dieci anni la sfida della sostenibilità a furia di veti, accordi al ribasso e flessibilità concesse agli Stati.

Il dietrofront dell’Ue, tutta politica e poca pratica – Nella stessa direzione vanno anche le ultime scelte. A parte quella, obbligata, di provare a introdurre un meccanismo di salvaguardia rafforzata sulle importazioni dall’Ucraina di prodotti che, dallo scoppio della guerra, si stanno importando senza dazi (creando una concorrenza sleale e danneggiando i Paesi importatori). Ma per venire incontro agli agricoltori o, meglio, a quelle istanze di parte del mondo agricolo che le istituzioni europee hanno ascoltato, Ursula von der Leyen ritirerà la proposta di regolamento sui pesticidi, nata per ridurre i rischi dei prodotti fitosanitari chimici. “È diventata un simbolo di polarizzazione”. In altre parole è stata, anche quella, strumentalizzata. D’altro canto le istanze arrivano in un momento particolarmente delicato per la politica europea: i trattori sono scesi in strada a quattro mesi dalle elezioni, con le destre in netta ascesa e i partiti tradizionali, sia nel centrodestra che nel centrosinistra, già pronti a perdere seggi nella Plenaria di Bruxelles. Il Green Deal di von der Leyen ha provocato il risentimento dell’imprenditoria europea che rappresenta una bella fetta dell’elettorato di partiti come il Ppe. Adesso, il rischio è di perdere il sostegno anche del settore agricolo. In entrambi i casi, a guadagnarci potrebbero essere di nuovo i partiti conservatori o ultranazionalisti. Si tenta così di recuperare qualche voto a destra, dato che gli ambientalisti votano più le formazioni verdi o di sinistra. Ma il tempo rimasto è poco: tra quattro mesi si vota e, se i risultati dovessero confermare le previsioni, per i prossimi cinque anni avremo un Parlamento molto più spostato a destra. E lo smantellamento del Green Deal verrebbe completato.

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