I 25 anni dalla scomparsa di re Hussein di Giordania – morto il 7 febbraio 1999 – e il boom della nazionale in Coppa d’Asia con la storica qualificazione alla finale del torneo, in programma sabato a Doha: sono i due argomenti cult dell’informazione del paese arabo e sono, in qualche modo, connessi. Re Hussein, salito al trono diciottenne il 2 agosto 1953, modernizzò la Giordania introducendo l’istruzione primaria obbligatoria, avviando una serie di misure per dare impulso all’economia e, soprattutto, ricoprendo un ruolo chiave dopo la guerra dei Sei giorni del 1967, fino ad arrivare, nel 1994, alla pace con Israele.

Il figlio, Abdullah, avvistato in tribuna in Qatar questi giorni, ha proseguito l’opera del padre e oggi la Giordania è l’unico punto stabile della regione più tormentata del mondo. Il calcio, che ha ricevuto negli ultimi trent’anni la spinta passionale della comunità palestinese, dal Duemila in poi è in ascesa costante. Chiude il cerchio la figura del ct, il marocchino Hussein Ammouta, in carica dal 26 giugno 2023 e contratto valido fino al 2026. E’ un duro che non guarda in faccia a nessuno. Ha imposto disciplina in un ambiente dove, storicamente, si tende al rilassamento. Ammouta, ribattezzato “Qayid”, il boss, ha allontanato lo storico bomber Al Dardour dopo gli ottavi contro l’Iraq. L’attaccante aveva festeggiato in modo plateale il gol del 3-2 di fronte alla sua panchina, arrivando quasi alle mani con gli assistenti di Ammouta: poche ore dopo, il 29 gennaio, Al Dardour è stato rispedito a casa.

La Giordania, dopo la festa per l’approdo in finale con il meritatissimo 2-0 sulla Corea del Sud, si è risvegliata avvolta da un’insolita nebbia. Sulla nazionale splende invece il sole. L’accesso all’ultimo atto della Coppa d’Asia porta in dote il premio minimo di tre milioni di dollari: in caso di trionfo saranno cinque. Non è poco per una nazionale valutata all’inizio del torneo tredici milioni e seicentocinquantamila euro: la quotazione venti giorni dopo è quasi raddoppiata e ha imposto all’attenzione internazionale nomi interessanti. Il 2-0 nella semifinale contro la quotata e favorita Corea del Sud è stato siglato con una splendida azione personale da Mousa Al-Tamari, dal 2023 in forza al Montpellier, 26 anni, esterno, giocatore più veloce del campionato francese. L’1-0 ha avuto la firma di Yazan Al-Naimat, attaccante dell’Al-Ahli di Doha.

Dietro all’exploit ci sono molte cose: la mano sicura di Ammouta; la crescita progressiva del calcio giordano negli ultimi vent’anni; la relativa e miracolosa tranquillità di una nazione circondata da Israele, Arabia Saudita, Siria e Iraq; l’economia in discrete condizioni, foraggiata dal turismo, ma penalizzata dal territorio in gran parte desertico e dalla carenza di risorse energetiche. Il campionato, a 12 squadre, è l’anello debole del sistema. La formazione più titolata è l’Al-Faisaly di Amman – 35 titoli -, la maggior rivale è l’Al-Wehdat, fondato nel 1956 da un gruppo di rifugiati palestinesi. I due club rappresentano la spaccatura sociale della Giordania: da un lato i nazionalisti, dall’altro una comunità che rappresenta l’eterno problema della diaspora palestinese. A parte queste realtà, il resto non è granché.

Il cammino in Coppa d’Asia è stato in progress. Dopo l’approdo agli ottavi come una delle migliori terze nella fase eliminatoria (4-0 sulla Malesia, 2-2 con la Corea del Sud, 0-1 con il Bahrein), sono arrivati il 3-2 sull’Iraq, l’1-0 sul Tagikistan e il 2-0 sulla Corea del Sud. Il messaggio su X del re Abdullah, impegnato nelle celebrazioni del suo quarto di secolo di regno, è eloquente: “Complimenti all’allenatore e alla nazionale per aver alzato la testa. La bandiera giordana sventola con l’energia e la determinazione dei suoi figli. Dio vi benedica”. La febbre per la finale è alta: le compagnie aeree stanno organizzando voli speciali per la partita di sabato, partenza alle prime ore del mattino e rientro dopo il match. Doha sarà presa d’assalto dai tifosi della Giordania.

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