Un rigore e poi un pastrocchio di Battistini: non certo capolavori come il primo gol in Serie A all’esordio contro la Lazio o come quello nel derby del 4 a 1 al Genoa, e di doppiette ne aveva già segnata qualcuna più importante in carriera, ma la prima in A è sempre la prima in A. La segnava all’Udinese, trent’anni fa, Vladimir Jugovic: centrocampista con una lunghissima lista di qualità all’attivo, dall’eleganza alla concretezza, probabilmente tra i pochi calciatori di quegli anni che troverebbero posto immediatamente anche nel calcio di oggi. Un dono? Mica tanto se quelle caratteristiche devi limarle e costruirle pezzo su pezzo, calcione (subìto) su calcione. Già, perché il talento in sé basta se ce l’hai nella misura di Dejan Savicec o di “PiksiStojkovic. Se ne hai un po’ di meno no, non è sufficiente a fare strada, specie se giochi sempre coi più grandi.

Che sia forte “Juga” non è in discussione: è evidente quando gioca a Milutovac, e infatti la Stella Rossa lo prende ragazzino, per portarlo nelle sue giovanili. Non è tutto rose e fiori ma è un’ottima palestra: impara a pensare velocemente, a sviluppare l’utile e non solo il bello, a far dominare la testa e non le gambe o il cuore. Quel cuore che lo avrebbe fatto rimanere a Belgrado nonostante l’allenatore della Stella Rossa non lo considerasse, quella testa che invece gli suggerisce di andare un anno in prestito al Rad. Segna 7 gol in sedici partite e allora la Stella Rossa, che intanto ha cambiato allenatore e visto partire Dragan Stojkovic, ceduto all’Olympique Marsiglia, decide di puntare sul giovane Vladimir. E fa bene: arriva la Coppa dei Campioni proprio contro l’Olympique di Stojkovic. E poi l’Intercontinentale a dicembre 1991: 3 a 0 al Colo Colo, doppietta di Jugovic, che inserirà lì, a Tokyo, un’altra qualità al suo già pregevolissimo pedigree, ovvero quella di calciatore decisivo.

Boskov avverte Mantovani: “Prendilo, è il miglior mediano che c’è in giro”, ma intanto Zio Vuja va alla Roma e lì porta Mihajlovic dalla Stella Rossa, ma alla fine per circa sei miliardi di lire l’affare coi blucerchiati si fa. Ed è effettivamente un affare: gol all’esordio assoluto alla Samp, in Coppa Italia contro il Cesena, gol all’esordio in A con una punizione magnifica contro la Lazio, gol alla seconda giornata contro l’Ancona, gol alla terza giornata contro l’Udinese. E poi all’ottava, nel derby contro il Genoa. Un calciatore meraviglioso capace di inserirsi e agevolare il lavoro di Mancini e Lombardo, che diventa imprescindibile nello scacchiere di Eriksson. Nella seconda stagione il suo rendimento cala leggermente, ma contribuisce al terzo posto finale e alla vittoria della Coppa Italia. Al terzo anno in blucerchiato è protagonista in Coppa delle Coppe: in semifinale segna doppietta ad Highbury contro l’Arsenal, e uno di quei gol diventa anche momento iconico del film “Io no Spik Inglish” con Paolo Villaggio. Lippi decide di portarlo alla Juventus al termine di quella stagione, assieme a Vierchowod e Lombardo.

Ancora una volta la scelta si rivela decisiva: il serbo segna, ancora, all’esordio in Coppa Italia ad Avellino e il primo gol in campionato contro la Cremonese, ma soprattutto “Juga” è nella storia juventina per un sorriso. Già: dopo aver segnato in semifinale di Champions nel ’96 contro il Nantes la Juventus affronta l’Ajax detentore del trofeo. Dopo i gol di Ravanelli e Litmanen le squadre vanno ai rigori. La Juve batte per seconda e a Jugovic tocca il quarto tiro, dopo gli errori dei dischetto di Davids e Silooy per gli olandesi. E’ il rigore decisivo… e Vladimir sul dischetto sorride. Non mostra tensione o paura di fronte all’enorme Van der Saar, no, ride. Ride e segna, consegnando alla Juventus la sua ultima Champions League. Si toglie la soddisfazione di vincere lo scudetto in bianconero l’anno dopo, risultando ancora una volta decisivo, come nello scontro diretto contro l’Inter o con la doppietta rifilata al Milan a San Siro, nella gara del sei a uno per la Juventus. Manca la Champions stavolta: il bis non arriva per la sconfitta in finale contro il Borussia Dortmund.

Arriva la chiamata della Lazio: c’è Eriksson, suo ex allenatore alla Samp, e il primo nome che fa a Cragnotti per il centrocampo biancoceleste è proprio quello di Jugovic.
Qui Vladimir diventa “Mezzasquadra”: perché pure quella compagine di campionissimi non può fare a meno della sua intelligenza. Gioca meno in campionato, per via di qualche problemino fisico, ma è cruciale in Coppa Italia, dove segna sia all’andata che al ritorno contro la Roma che nella finale vittoriosa contro il Milan e poi è decisivo nella semifinale contro l’Atletico Madrid di Bobo Vieri, con l’unico gol della doppia sfida che varrà alla Lazio la finale, poi persa contro l’Inter di un Ronaldo infermabile. Proprio Bobo Vieri lo chiamerà all’Atletico, salvo fare il percorso inverso verso Roma: per Jugovic però, con Sacchi prima e con Antic poi, non sarà una grande stagione, complice vari acciacchi che per un calciatore ormai 30enne si rivelano pesanti. Prova a rilanciarsi nell’Inter di Moratti, ma non si esprimerà come ai tempi di Genova e Roma: metterà assieme 28 presenze e 3 gol in 2 stagioni, prima di passare al Monaco e poi chiudere la carriera tra Admira Wacker e Ahlen. Oggi è opinionista e scouting: non allenatore, al campo ha già dato. D’altronde deve essere faticoso essere “Mezzasquadra” per un’intera carriera.

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