È un momento cruciale per l’esito dei colloqui su una nuova tregua, questa volta a lungo termine, e il conseguente rilascio degli ostaggi. I mediatori, con i rappresentanti di Hamas e di Israele, hanno elaborato una proposta a di pace a Parigi di cui si iniziano a notare le conseguenze nell’atteggiamento dei principali attori coinvolti, direttamente o indirettamente, nel conflitto. Il partito armato palestinese si dice pronto a cessare le ostilità, ma solo se per un lungo periodo, Netanyahu tenta di tenere unite le correnti interne al governo di Tel Aviv, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna tornano di nuovo in Medio Oriente per cercare di dare la spinta finale alle trattative.

È notizia di martedì l’imminente viaggio, il sesto dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, di Antony Blinken in Israele. Il capo della diplomazia americana sarà nel Paese dal 3 al 5 febbraio. Come lui, anche il ministro degli esteri britannico, David Cameron, si trova in Medio Oriente, per la precisione in Oman, da dove annuncia che Londra sta valutando la possibilità di riconoscere uno Stato palestinese per favorire la pace. Nella Striscia di Gaza, ha poi aggiunto lanciando così un messaggio a Benjamin Netanyahu e ai membri del suo governo, c’è “urgente necessità di una pausa immediata” dell’azione militare d’Israele per consentire “il passaggio degli aiuti” alla popolazione palestinese, “l’uscita degli ostaggi” detenuti da Hamas e per dare alla diplomazia lo spazio per lavorare alla successiva adozione di “un cessate fuoco sostenibile” permanente senza soluzione di continuità. Questo perché esiste il rischio concreto che il conflitto “tracimi in altri Paesi della regione. Un’escalation non è nell’interesse di nessuno”.

Anche il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha indicato come priorità quella di “porre fine all’offensiva israeliana con il ritiro delle sue forze della Striscia di Gaza”. Per questo il gruppo sta “studiando la proposta di cessate il fuoco elaborata a Parigi” nel corso di un colloquio tra i capi della Cia, del Mossad e dell’intelligence egiziana, alla presenza anche del primo ministro del Qatar, annunciando che si recherà “al Cairo per discutere i dettagli del piano”. “Hamas – ha ribadito – è aperto a tutte le proposte serie e praticabili che possano portare a un cessate il fuoco. Il mondo deve fare pressione sul regime d’occupazione israeliano in modo che metta fine ai massacri e ai crimini di guerra”. Queste proposte devono comprendere, ha puntualizzato, “una cessazione completa dell’aggressione, un processo di accoglienza per il nostro popolo, la ricostruzione, la revoca dell’assedio e la realizzazione di un serio processo di scambio di prigionieri“. Linea condivisa con il Jihad Islamico che, attraverso il segretario generale Ziad al-Nakhala, ha negato ogni possibilità di accordo se non ci sarà un “globale cessate il fuoco e un ritiro delle forze israeliane da Gaza”.

Più complessa, invece, la gestione delle posizioni eterogenee all’interno del governo israeliano. Mentre le anime che si sentono forti nei sondaggi, come quella che fa capo a Benny Gantz, al ministro degli esteri Yoav Gallant, che tenta la scalata al Likud, e quella legata al ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, agiscono come se fossero ormai in piena campagna elettorale, chi rimane sempre in secondo piano, in attesa di capire in che modo poter tenere unito ancora un po’ questo esecutivo, è il premier Netanyahu. Anche questa volta, Bibi ha parlato per ultimo. Prima di lui sono arrivate la dichiarazioni di Ben Gvir che ha minacciato la caduta del governo in caso di accordo con Hamas su un cessate il fuoco, mentre Gallant ha ribadito, nonostante l’opposizione manifestata più volte dagli alleati, compreso quello americano, che i militari di Tel Aviv manterranno una presenza a Gaza dopo la fine del conflitto: “Dopo che la guerra sarà finita, penso che sia del tutto chiaro che Hamas non controllerà Gaza – ha detto – Israele la controllerà militarmente, ma non in senso civile”.

Solo dopo le loro parole sono arrivate anche le dichiarazioni di Netanyahu, un grande riassunto delle varie posizioni che, però, non sembra poter portare a un’intesa con la controparte palestinese, salvo importanti concessioni: “Non ritireremo l’esercito da Gaza e non libereremo centinaia di detenuti. Questo non è un altro round, uno scambio di colpi, un’altra operazione, ma una vittoria completa“. Una “vittoria” che Netanyahu dovrà raggiungere da solo, con il suo gabinetto di guerra e il suo governo, perché gli alleati guardano tutti a un cessate il fuoco da raggiungere al più presto possibile.

Twitter: @GianniRosini

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