di Federica Pistono*

La poesia preislamica è l’espressione della società araba antica, prima che l’Islam venisse a darle un nuovo volto e una nuova fede. In un periodo in cui i testi scritti presentavano ancora una scarsa diffusione, la poesia rappresentava un mezzo prezioso per ricordare e tramandare ai posteri gli avvenimenti importanti. Nell’ambito della poesia preislamica s’inquadrano le Mu ̔allaqāt, componimenti che costituiscono una sorta di canone poetico che ha avuto immenso prestigio fra gli Arabi e che vengono annoverati fra i capolavori della letteratura di ogni tempo.

La prima edizione italiana dell’opera risale al 1991 (Le Mu ̔allaqāt, a cura di D. Amaldi, Marsilio Editori), e riguarda le sette poesie più famose della raccolta. Nell’ultimo scorcio del 2023 è stata pubblicata una nuova edizione che per la prima volta offre al lettore la possibilità di leggere dieci componimenti in lingua italiana (Le Mu ̔allaqāt, a cura di J. Guardi e H. Benchina, Almutawassit Books 2023, stampa e distribuzione emusebooks.com). Goethe, nel suo West-ӧstlicher Divan (1819), così descrive la raccolta poetica: “Presso un popolo ancor più a Oriente, gli Arabi, troviamo splendidi tesori nelle Moallakat (…) poesie scritte con lettere d’oro, appese alla porta del tempio della Mecca”.

Il termine Mu ̔allaqāt significa infatti “appese”, riferendosi al fatto che i testi, scelti per loro particolare bellezza, fossero scritti su stoffa e appesi all’interno della Ka ̔bah. Sono i canti delle tribù nomadi, che vivevano seguendo i ritmi delle stagioni, fra il deserto e le oasi, ritrovandosi insieme nei periodi della pioggia, quando la vegetazione poteva sfamare uomini e bestiame, e separandosi nella stagione secca, alla ricerca di acqua e pascoli.

La società preislamica, sia nomade che sedentaria, era fondata sul movimento di uomini e animali: le migrazioni periodiche delle tribù, i percorsi delle carovane attraverso il deserto, il trasferimento di mandrie e greggi. Il motivo del viaggio si riflette anche nella poesia, con il poeta che parte dall’accampamento abbandonato, attraversa il deserto sulla sua cavalcatura per raggiungere infine la meta.

La struttura poetica è quella della qaṣīdah, un componimento di circa cento versi basati sulla successione di alcuni temi fissi: il preludio amoroso (nasīb), in cui il poeta contempla i resti dell’accampamento e rimpiange la donna amata, partita verso nuove sedi; il viaggio (raḥīl), compiuto dal poeta, con le descrizioni (waṣf) della cavalcatura, dei paesaggi naturali e degli animali incontrati lungo il cammino, per giungere alla conclusione consistente in un panegirico (madīḥ), di solito un’esaltazione della propria tribù e valori morali.

Tale struttura poetica non risulta, però, rigidamente applicata nei testi arrivati sino a noi, anzi, le tematiche sono sviluppate da ogni poeta in maniera diversa tanto nei contenuti quanto nelle proporzioni. Nei testi si riverbera la dura vita delle tribù nomadi, erranti per i deserti dell’Arabia settentrionale e centrale, più raramente nello Yemen, o stanziate nei primi nuclei urbani in Higiàz. La struttura sociale è quella tribale, suddivisa in clan e unità familiari, obbedienti all’autorità di un capo (sayyid) liberamente riconosciuto, stretti da legami di sangue.

Al centro di ogni componimento troviamo le occupazioni principali dell’esistenza beduina, come la pastorizia e la guerra, di cui il cavallo e il cammello sono i quotidiani compagni, le armi lo strumento necessario. Fra le virtù più apprezzate del cavaliere del deserto figurano il coraggio in battaglia, la liberalità verso gli ospiti in tempo di pace, l’attenzione verso le vedove e gli orfani, come pure l’abilità oratoria e la capacità di lottare quotidianamente per la vita in un ambiente naturale inclemente. Con dovizia di dettagli sono descritte anche le gioie dell’esistenza: l’amore, che le abitudini nomadi condannano a frequenti distacchi, il vino procurato dai mercanti stranieri, il gioco del maysir, la caccia a struzzi, gazzelle, onagri, sentita già come un’attività cavalleresca.

Questo, in estrema sintesi, l’orizzonte del beduino di quindici secoli fa nei deserti d’Arabia, rievocato in quello che Davide Rondoni, nella presentazione alla nuova edizione, definisce “un doppio viaggio, uno in ciò che è lontano, l’altro in ciò che è dentro di noi, poesia della seduzione, del viaggio, dell’amore e della nostalgia”.

* Dottore di Ricerca in Letteratura araba, traduttrice, arabista, docente, si occupa di narrativa araba contemporanea e di traduzione in italiano di letteratura araba

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