Un vecchio proverbio dice che del senno di poi son piene le fosse, indicando con questo che è molto facile criticare a posteriori determinate scelte che al momento sembravano ragionevoli. Questo adagio popolare si applica molto bene a certi provvedimenti, che oggi paiono francamente folli, di finanza pubblica. Tra tutti, spicca per la sua evidenza quello delle pensioni baby per i dipendenti pubblici.

Siamo nel 1973 e il governo Rumor decise questa misura pensionistica, potremmo dire un Salvini ante litteram. Misura del tutto errata, vista con il senno di poi. Anche se allora poteva avere una sua giustificazione contabile, diciamo basata su di una certa ingenuità finanziaria. Nel 1973 il debito pubblico era molto modesto, appena il 60% del Pil, e anche la spesa pensionistica volava basso, attestandosi all’8% sempre del Pil, apparendo del tutto sostenibile. Con alle spalle i trenta anni gloriosi di crescita tumultuosa, così definiscono gli storici economici il periodo precedente, il fardello sembrava sopportabile e il peccato, per così dire, veniale. Era un fardello di circa 10 miliardi l’anno di cui hanno beneficiato circa 500.000 lavoratori che sono andati in pensione in età giovanissima riscuotendo una rendita, pari al 40% dello stipendio, per un lunghissimo periodo. Una spesa totalmente irrazionale dal punto di vista attuariale, cioè della matematica finanziaria. Il privilegio in questione venne abolito poi con la riforma del 1992. In totale questa follia finanziaria è costata ai contribuenti 102 miliardi e più secondo stime recenti dell’Inps.

L’errore clamoroso e populista delle baby pensioni potrebbe sembrare un capitolo completamente chiuso e invece viene riproposto ora dal governo Meloni, anzi è un elemento centrale della sua politica economica, anche se la denominazione è del tutto differente e anche la platea dei beneficiari cambia. Stavolta la follia finanziaria si chiama fiscalizzazione degli oneri sociali per i lavoratori dipendenti. Lo scenario peraltro è il medesimo. La riduzione è iniziata timidamente con il governo Draghi per contrastare gli effetti della grave crisi pandemica, esattamente come nel 1973. Poi il provvedimento è stato ampliato a dismisura dal governo Meloni che ha portato la cifra iniziale a quota 10 miliardi per il 2023 e ora a quota 12 miliardi per il 2024. Non sappiamo cosa accadrà nel 2025, ma è difficile che non sia rinnovata.

Se il provvedimento sarà confermato ogni anno, possiamo stimare una spesa totale di legislatura che oscilla tra i 50 e 60 miliardi di euro, che però, come vedremo, va raddoppiata. Naturalmente la motivazione è nobile, aumentare il salario netto dei lavoratori, ma ogni follia finanziaria al momento non appare come tale. I motivi per catalogare questa scelta come del tutto irrazionale rispetto alla situazione esistente sono almeno due, trascurando i secondari. Il primo è che i soldi non ci sono e quindi il provvedimento è finanziato con un ulteriore disavanzo, anche quest’anno licenziato dalle Camere. Con un debito pubblico pari al 140% del Pil e tassi di interesse molto alti, non si capisce la ragione economica di questo intervento. Il debito non è più quello modesto dei tempi della Dc e arriverà a quota 3.000 miliardi nel 2026, un altro record di Meloni. L’ingenuità finanziaria degli anni Settanta non c’è più e un ministro delle Finanze serio e autorevole dovrebbe tenerne conto senza puntare come al solito sull’indulgenza europea, che peraltro non c’è più.

Poi c’è il secondo aspetto, ancora più preoccupante. La fiscalizzazione riduce le entrate dell’Inps di pari importo ed è però utile, per legge, per maturare il montante pensionistico. In altri termini, l’Inps dovrà in futuro pagare delle pensioni a fronte di contributi non versati. Si comprende allora che questo sia un secondo buco di bilancio, per ora invisibile ma che fra qualche anno sarà visibilissimo, come quello delle baby pensioni. Il nefasto populismo di Meloni qui si tocca con mano. Fra 10 anni, forse anche meno, qualcuno si chiederà chi erano quel ministro e quel premier così scriteriati da creare due debiti gemelli. In definitiva, il cosiddetto prudente Giorgetti sta creando quel debito da 100 e passa miliardi, una metà palese e l’altra occulta, che aveva contestato sguaiatamente a Conte. Ma almeno la follia di Conte si è trasformata in capitale materiale: case ristrutturate e risparmio energetico. Lo sconto contributivo di Giorgetti invece illude i lavoratori dipendenti perché regala soldi che non ci sono. Diciamo che a conti fatti la follia di Meloni è doppia rispetto a quella di Rumor. Filosoficamente è una follia in sé e per sé: in sé perché finanziata in disavanzo, per sé perché crea un egual debito pensionistico e insostenibile.

Ho però un sospetto. Se incontrassi casualmente il ministro al bar per un caffè, credo che condividerebbe i miei ragionevoli dubbi. Il Giorgetti commercialista penso sia molto diverso dal Giorgetti ministro per conto del duo Meloni-Salvini. Da professionista, credo che anche in cuor suo consideri questa fiscalizzazione una iattura, ma è prigioniero della sua maggioranza populista che vuol comprare il consenso elettorale – le elezioni europee sono vicine – con soldi che non ci sono. Però le opinioni private del ministro non contano molto e per questa via non si salva la coscienza.

Se continua così, si meriterà la fama sinistra di ministro poco autorevole che ha sfasciato i conti pubblici, presenti e futuri. Peraltro, c’è sempre un losco freno di emergenza: tagliare le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici. Cosa che ha già fatto e che vedremo, con facile profezia, ancora di più in un futuro che non si annuncia di certo radioso per i conti pubblici.

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