Il 20 gennaio 2022, a 102 anni, moriva Sergio Lepri, direttore dell’agenzia di stampa Ansa (Agenzia Nazionale Stampa Associata, la prima a nascere in Italia, nel 1945). Uso volutamente il termine ‘moriva’ perché mi permetto di pensare che Lepri lo avrebbe preferito rispetto a metafore mielose come «se n’è andato», spesso peggiorate da condimenti tipo «in punta di piedi» oppure «ci ha lasciati» o «è mancato all’affetto dei suoi cari’…» locuzioni più adatte a un necrologio che a un articolo di giornale.

Al corso preparatorio per l’esame di idoneità professionale dei giornalisti, a Urbino, a metà anni Ottanta, Lepri raccomandava a noi futuribili redattori di non usare nei resoconti di cronaca termini che la gente non utilizza nella vita quotidiana. Ricordo alcuni esempi: «una ridente località» non lo dice nessuno come pure, nel caso di un grave incidente automobilistico, «il corpo è stato estratto fra le lamiere contorte» (lo cantò Francesco GucciniIn morte di un’amica – ma lui è un poeta non un cronista…). Oppure, per far sapere che farà più freddo, ecco che «la colonnina di mercurio si abbasserà». O ancora l’uso di «nosocomio» al posto di ospedale.

Ve li immaginate due amici al bar davanti a un caffè dove uno dice all’altro: «Sai che Mario ha avuto un incidente in una ridente cittadina? Hanno estratto il suo corpo fra le lamiere contorte dell’auto, forse per via del ghiaccio perché la colonnina di mercurio s’era abbassata. Meno male che l’hanno portato subito al nosocomio». Inimmaginabile. Eppure ancora oggi c’è, ogni tanto, chi lo dice, anche in servizi dei tg di Rai e Mediaset.

Settantasei anni di professione, per Lepri: dal 1944, anno del giornalismo clandestino a Firenze. Dopo numerose esperienze, è approdato, nel 1962, alla direzione dell’Ansa, mantenuta fino al 1990, portando i giornalisti dell’agenzia da 83 a 432. Infine, ha insegnato Linguaggio dell’informazione alla Luiss di Roma.

Professione giornalista (Rizzoli Etas), aggiornato da Lepri fino al 2005 nella terza edizione, è un manuale che ogni redattore di giornale, radio o tv dovrebbe leggere (sul sito www.seguilepri.it si può trovare tutta la sua immensa produzione scritta). Dal 2005 a oggi, però, molte cose sono cambiate. E così nel 2019, in occasione dei suoi cento anni, Lepri ha concesso, con straordinaria lucidità, un’intervista tv su RaiCultura a cura della Fondazione sul giornalismo italiano Paolo Murialdi dove, dopo aver ripercorso la sua lunga carriera (raccontata anche in La mia vita da giornalista, All Around, 2022), risponde a una domanda su cosa direbbe oggi a un giovane che si accinge alla professione giornalistica: «Cosa direi oggi? Non lo so perché sono sconvolto da come si fa giornalismo oggi» […] «Quando si è passati da analogico a digitale pensavo: che bellezza questa banca dati, questa biblioteca universale! Ci dà la possibilità di fare un’informazione migliore, più ricca, preannuncia un futuro esaltante per l’informazione. Ci permette di accrescere le nostre conoscenze anche sul piano culturale. Poi è successo quello che è successo e sta succedendo: Internet permette a tutti di parlare, è il trionfo della democrazia no? Siamo tutti uguali, chi sa e chi non sa, chi è formato e chi non è formato, questa la situazione in poche parole».

Già prima, Lepri diceva: «È un problema che, grave da sempre, è oggi diventato ancora più grave con Internet e i cosiddetti “social”. Un tempo l’analfabeta funzionale stava a casa o al bar o allo stadio e poteva far danno sociale soltanto quando andava a votare. Non comprendendo informazioni vere e consumando e distribuendo informazioni false, oggi fa danno o può far danno ogni giorno nella politica, nella cultura, anche nelle attività produttive del paese […] Con una platea come questa è sorprendente che oggi sul palcoscenico della comunicazione ci siano tanti che non se ne rendono conto e colpevolmente gestiscono l’informazione non come strumento di conoscenza ma come oggetto di intrattenimento, privilegiando i contenuti che non si rivolgono alla ragione ma ai sentimenti, che non suggeriscono riflessioni ma suscitano emozioni».

Ricordo ancora con amarezza quando il mio capocronista a La Notte, dove allora lavoravo, mi mandò in un paesino della Ciociaria a intervistare una signora il cui figlio era fuggito da casa: «Mi dispiace, è già passato il Gabibbo», rispose la donna. «Ma signora, il Gabibbo è un pupazzo…», tentai di ribattere. Ma non ci fu nulla da fare, mi sbattè la porta in faccia. Ma perché, mi chiedo, molti giornalisti (per fortuna, al contrario, ne abbiamo ancora di bravissimi) chiedono a un poveretto cui hanno ucciso un parente: «Ma lei perdona l’assassino?». Siamo diventati tutti cattolici disposti a porgere l’altra guancia? E perché si usano ancora termini alla melassa quando ci si trova di fronte a una vittima di omicidio? «Era un angelo», «Era solare», «Aveva un sorriso contagioso». Emozioni, drammatizzazioni, non notizie. Lepri ci aveva avvisato.

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