Un anno fa scrissi un post sull’irruzione di migliaia di scalmanati fan dell’ex presidente Bolsonaro che occuparono la Praça dos Três Poderes a Brasília, dove si ergono il Planalto – sede della presidenza federale – il Senato e la Corte Suprema, cioè i simboli del potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Gli uffici furono devastati dalla furia degli estremisti, preceduta da un tam-tam nazionale sui social network che riportò notizie di brogli elettorali avallate da Bolsonaro ma contraddette da Alexandre de Moraes, membro del Supremo Tribunale Federale, il quale accusò l’ex presidente di avere orchestrato una campagna diffamatoria scatenando la folla.

A seguito di ciò Lula, insediatosi l’1 gennaio 2023 dopo la vittoria elettorale, decise con de Moraes di varare un decreto restrittivo nei confronti di media e social, dopo centinaia di arresti. Furono rimossi migliaia di post, censurati articoli della stampa avversa e dichiarazioni di magistrati quali Aurélio Mello, il quale aveva rimarcato che Lula non era stato assolto dalla sentenza di Curitiba (per cui aveva già scontato due anni) chiedendo che il processo ripartisse da zero in altra sede con un nuovo giudice, poiché Sergio Moro era stato parziale.

Golpetto o scherzetto?

Da allora si profila una deriva semi autoritaria, mentre continuano gli scontri sulla matrice del presunto golpe. Lula rimosse i vertici della polizia, accusati di connivenza con gli assalitori, mentre l’opposizione contestò la versione governativa sul guasto delle telecamere di sicurezza che avrebbe facilitato l’irruzione. Secondo membri della commissione parlamentare, esistono filmati che mostrano funzionari del ministero parlare con i “golpisti” e indicare loro l’uscita dopo la bravata. Sta di fatto che il ministro della Giustizia Flávio Dino è accusato di aver ricevuto la moglie del capo di Comando Vermelho, gang leader del traffico di droga e armi, e di essere stato a conoscenza dell’assalto dei facinorosi prima che avvenisse. Il ministro ha smentito, scaricando tutto sul suo segretario. Gomblotto dunque?

La Csis (Center for Strategic and International Studies), ong che indaga sugli abusi internazionali, ha stilato un rapporto sul Brasile nel quale, pur riconoscendo la necessità di una regolamentazione più severa dei social network – sovente fautori di campagne d’odio – mette in guardia il governo federale dagli effetti collaterali di restrizioni eccessive, citando i casi del Nicaragua, dove il governo sandinista con la Cybercrimes Law impone lunghi periodi di detenzione; di Cuba, che dopo le proteste del 11 luglio 2021 con la Ley 35 ha inasprito la censura sulla comunicazione; infine del Venezuela, dove l’Assemblea Costituente imposta da Maduro ha votato la Ley Contra el Odio, con pene da 10 a 20 anni per coloro che contraddicono pubblicamente il governo. Tuttavia è l’economia a prevalere nella valutazione dell’operato dei politici.

L’inganno di Gini

L’indice di Gini è il coefficiente che misura la disuguaglianza dei redditi. Più alto è il valore, maggiore è la concentrazione di questi in circoli chiusi. Nel 2018, anno del governo provvisorio di Temer, Gini era a 0,545. L’indice scese durante la pandemia, valore falsato però dai sussidi speciali decisi da Bolsonaro (600 reais mensili per i ceti indigenti) e dalla flessione dei redditi benestanti per via del lockdown che causò il crollo delle attività commerciali. Infatti dopo la fine dell’emergenza e la ripresa del commercio, risalì a 0,544 per poi scendere a 0,518 nel 2o semestre 2022, ultimo del mandato bolsonarista.

Nel terzo trimestre 2023 il valore si assestò a 0,517 poiché le rendite dei lavoratori informali – cioè esenti da dichiarazione redditi – crebbero, mentre scesero quelle dei dipendenti nel settore privato e pubblico (sanità, istruzione, trasporto) penalizzati dal risibile aumento di 17 reais del salario minimo, fissato per il 2024 a € 250. La situazione nel Nord Est – zoccolo duro dell’elettorato di Lula – dove gli informali sono oltre il 50%, è però illusoria, poiché negozietti e venditori ambulanti senza contributi non hanno diritto a pensione e assistenza medica.

Lo spostamento di alcuni decimali determinato da fattori esterni a riforme economiche strutturali non cambia la realtà del Brasile; quale che sia l’inquilino al Planalto, comanda sempre un’oligarchia di miliardari: latifondo e Bancada Ruralista impongono le linee governative. Lo hanno dimostrato con la questione indigena, dove sono riusciti a fare annullare il veto del presidente sulle terre delle etnie, i cui confini con il marco temporal ritornano a quelli originali del 1988. E quanto contino i poveri nella politica di Lula lo si è visto con l’annullamento della tredicesima per gli iscritti alla Bolsa Familia e la cancellazione di 2,9 milioni di loro dalla lista dei beneficiari.

I tagli del Budget Federale 2024 riguardano anche i fondi per le università, il programma Minha Casa (4 miliardi di reais in meno) e la Farmácia Popular – i cui farmaci gratuiti fanno parte del welfare – che chiuderà per due mesi all’anno, servendo 5,3 milioni di assistiti in meno. Ciò a fronte di 8 mld per gli Emendas Pix – i finanziamenti concessi a parlamentari senza copertura di progetto – e di 2,3 mld per gli armamenti, mentre appena 900 milioni andranno per l’ambiente.

Photo credit © F.Bacchetta

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